«Dallo sciopero di Nardò la lotta dei braccianti contro i padroni non s’è mai fermata»

Il 31 luglio 2011, nella città salentina, scattò la prima grande astensione dal lavoro dei migranti impiegati nella raccolta dei pomodori. La consapevolezza dei diritti degli sfruttati è sopravvissuta nel tempo e ha portato all’approvazione del reato di caporalato

Il 31 luglio 2011 a Nardò, in Salento, nei pressi della Masseria di Boncuri, centinaia di braccianti iniziano il primo grande sciopero migrante d’Italia. Durante la raccolta del pomodoro, rifiutano i salari al ribasso e bloccano il traffico estivo. Il corpo che di solito, invisibile e silenzioso, viaggiava in bici al ciglio della strada, si sposta al centro della carreggiata: impossibile da ignorare.

Quell’estate, la qualità dei pomodori era particolarmente buona, così il caporale disse di raccogliere e stoccare i pomodori intatti, invece che sotto forma di riserva. Nonostante la tecnica fosse diversa, il caporale offriva comunque 3,50 euro a tonnellata. Due raccoglitori ghanesi si rifiutarono per primi, chiedendo di essere pagati 6 euro a tonnellata, come per i pomodori ciliegini. Il primo giorno il 95% dei braccianti aderì allo sciopero. Tre giorni dopo gli scioperanti erano seduti al tavolo istituzionale.

«Resisteremo fino alla fine: è una lotta difficile, ma vi assicuro che vinceremo. Abbiamo il nostro potere, siamo una forza, non dobbiamo arrenderci. So che questo messaggio è difficile perché la maggior parte di voi è venuta qui per lavorare. Sappiamo tutti che manifestare è difficile, ma tutto ciò che di bello c’è in questo mondo è stato ottenuto manifestando» (Sagnet, 2012).

L’attenzione mediatica salì e lo sguardo si soffermò su una parte di mondo a cui aveva prestato poca attenzione: quella realtà dove le culture millenarie e i processi della globalizzazione si incontrano a convivono (Leogrande, 2008). I luoghi dello sfruttamento agricolo appartengono a ogni epoca: i casolari abbandonati e sperduti, le baracche, i materassi sparsi. In questo millennio però è mutata la modalità di reclutamento, la forza del ricatto nei confronti di quelli che Frantz Fanon avrebbe definito «i dannati della Terra»: comunità disgregate o inestinti appartenenti a universi linguistici e culturali differenti e spesso inconciliabili, segregati, appositamente, in enclave per poter praticare meglio il controllo.

Nel 2011 però i lavoratori della terra rompono il patto tacito di sfruttamento con i padroni e i caporali, alzano la voce. La maggioranza nordafricana, forse ancora scottata dalla rabbia delle primavere arabe, e l’eccezionalismo del camerunese Yvan Sagnet, che dal Politecnico di Torino scopriva la realtà dei campi, accendono la miccia e riescono a far sopravvivere la fiamma. A Nardò quindi, con il sostegno della Cgil, vitale per i processi di alfabetizzazione sindacale, si crea una dimensione collettiva di braccianti consapevoli dei propri diritti che porta all’approvazione del reato di caporalato, articolo 603 del Codice penale, a settembre dello stesso anno, dopo decenni di vuoto normativo e giuridico.

Negli anni l’impegno di Yvan Sagnet passa, nelle sue parole, «dalla protesta alla proposta» con la fondazione di NoCap, una rete di contrasto al caporalato che non ha solo creato e supportato realtà agricole virtuose, immettendo sui mercati un’alternativa ai frutti dello sfruttamento, ma ha tolto dai ghetti centinaia e centinaia di persone garantendo salari e alloggi dignitosi. Mentre parlo con Yvan gli faccio qualche domanda sull’eredità di quello sciopero: «La strada è ancora lunga e complessa, ma possiamo dire che lo sciopero di Nardò ha segnato l’inizio di una lotta senza sosta ai padroni, all’impunità e all’illegalità di cui sono l’emblema, il che non è cosa da poco in questo Paese rassegnato su tutto».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso