Belle storie
C'è un'altra Caivano che resiste: quella che vuole cambiare. A cominciare dai bambini
Il Parco verde, quartiere del comune campano, è una delle più grandi piazze di spaccio e di violenze. Ma ci sono associazioni che strappano i più piccoli alla camorra. Nel silenzio dell'opinione pubblica e delle istituzioni
Parco verde è un quartiere di Caivano nato per dare casa agli sfollati dopo il terremoto del 1980, ma che si è trasformato anche in una piazza di spaccio di droga, una delle più grandi d’Europa. Torna sotto i riflettori perché è qui che si è consumata una violenza su due cuginette di dieci e dodici anni. Da tempo viene descritto come un non luogo, la porta dell’inferno da non varcare.
C’è però, come in ogni narrazione, un’altra faccia della medaglia: la parte sana del quartiere che resiste e lotta per difendere la bellezza ed è per questa speranza di riscatto che chiede proprio oggi, mentre la ferita sanguina, di non abbandonarla più e di non accorgersi della sua esistenza solo quando il confine viene sporcato con episodi drammatici. La salvezza è anche prevenzione.
Alfredo Giraldi è un attore, un burattinaio e un educatore. Abita nel Parco Verde da quando aveva tredici anni. Il nome del quartiere è nato nel tinello di casa sua dove si riuniva la Commissione ecologica del Comitato Popolare del quartiere. Si sarebbero dovuti chiamare rione 219, ma in quell’occasione una signora disse: «O verde è comm e nuje, vene maltrattato, sputato, ma po’ ricresce, rinasce». Era verde, ma ben presto si è inquinato. «Quando arrivammo nel 1985 la giunta era stata arrestata, non avevamo un riferimento politico. Non avevamo tutti i giorni l’acqua, la Chiesa nacque nel 1990: mancava tanto. Sono uno dei tanti che si è salvato dalla criminalità, ma i miei compagni di classe andavano in galera, sparivano da scuola e finivano nei clan della camorra».
Malgrado questo si parla poco del bene che si fa: i comitati hanno sempre agito per resistere e far resistere, coinvolgendo i ragazzi nelle attività culturali. «Vorrei che la gente ci vedesse con occhi diversi, anche se so che è complesso. È giusto raccontare la verità, ma vorrei far conoscere anche un’altra storia. Solo così si può capire quanto sia importante proteggere la bellezza e lavorare contro “lo schifo” che balza agli occhi. Che forse fa anche comodo a qualcuno che resti così».
C’è anche chi prova a cambiare, come Bruno Mazza, che ha scontato dodici anni in carcere e oggi ha fondato un’associazione, “Un’infanzia da vivere”, per aiutare i ragazzi del quartiere a non scegliere la sua stessa strada.
«Quando arrivammo non c’era niente per noi bambini: giostre, aree attrezzate, colori, campi sportivi. Nel 1992 ho perso mio padre che era un meccanico ed eravamo cinque fratelli, senza un punto fermo, mi sono perso anche a scuola. Tanti compagni non avevano il papà: chi morto per overdose, chi in agguati di camorra. Mi allontanai dalla scuola, malgrado mia mamma ci tenesse tantissimo perché era una maestra di asilo, anche se lavorava come bidella. A dodici anni ho iniziato a rubare: ci chiamavano “i rapinatori bambini”. Tutti sapevano chi fossimo, ma nessuno è venuto a casa nostra, nessuno è intervenuto con gli assistenti sociali. Era più facile spararci, anche se avevamo armi giocattolo. A 16 anni sono stato arrestato e quando sono uscito sono diventato il braccio destro di un boss, Alfredo Russo, che si era proposto come guida e padre protettivo. Un giorno però mi sono affacciato al balcone di casa durante i domiciliari e ho visto i bambini in strada commettere i miei stessi reati e ho capito che dovevo cambiare».