Economia
Il superbonus e gli altri: quando la proroga diventa soluzione al ritardo
La misura rivelale le cattive abitudini della politica: procedere a toppe invece che a tappe. Si parla di disastro economico e di truffe, ma si prevede una nuova dilazione dei tempi
La vicenda del Superbonus, ascesa agli onori delle cronache a quasi un anno dall’insediamento del nuovo Parlamento, rivela un approccio della politica completamente diverso da quello degli anni Cinquanta e da quello che purtroppo occorrerebbe per il futuro. Una linea caratterizzata da un percorso a “toppe” invece che a “tappe”, dove ogni scelta guarda solo all’immediato ed è condizionata da logiche di mero consenso. Difatti, benché una delle cause principali della spesa sul Superbonus sia stata proprio la continua dilazione dei tempi (inizialmente avrebbe dovuto terminare nel 2021), la sospensione di molti cantieri causata dal blocco della cessione dei crediti edilizi sembra far emergere la necessità dell’ennesima proroga. La tecnica è sempre la stessa: si parla di Superbonus come disastro economico e si rimarcano le truffe, per poi alla fine prevedere una nuova proroga, stavolta per i condomini. Dall’ultimo report dell’Enea, intanto, il guaio appare sempre più grosso: le detrazioni maturate per lavori già conclusi a carico dello Stato sono salite a 76,1 miliardi di euro, con un aumento di 25 miliardi rispetto a un anno fa.
Sul tema si sente tutto e il contrario di tutto. Da un lato, chi ha concepito e poi mantenuto la misura afferma che la stessa avrebbe avuto un effetto persino salvifico sulla ripresa e sull’aumento del Pil. Ma è evidente che è come dire: se regaliamo enormi risorse buttandole dalla finestra, qualche vantaggio nell’aumento della ricchezza dei passanti, che per caso si trovano lì, sicuramente ci sarà. Peraltro si è “drogato” un solo settore economico e, al netto delle truffe, non v’è stato neppure un effetto redistributivo generalizzato. Tanto valeva, quindi, che quei miliardi fossero utilizzati per ridurre il carico fiscale, visto che la leva tributaria ha effetti redistributivi per antonomasia e certamente più generali. Dall’altro lato, chi viceversa ora governa, a distanza di un anno, lamenta che ciò che è salvifico per i primi diventa per loro la causa irreversibile di tutti i mali, impedendo qualsiasi intervento aggiuntivo con effetti disastrosi sul bilancio dello Stato.
Ancora una volta le due fazioni che snocciolano dati macroeconomici complessi verificabili solo negli anni (quando ci saranno altre forze politiche che diranno di non esserci state) sono tutt’altro che rivolte alla Next generation. L’una perché ha drogato nell’immediato il sistema senza guardare agli effetti futuri e all’equa redistribuzione, l’altra perché ha cercato di chiudere lo steccato quando i buoi sono scappati, anche se poteva farlo quanto meno un anno prima. Difatti, tardivamente è stata abolita la possibilità di cedere i crediti di imposta, anche se gli effetti reali erano ormai chiari a tutti e tardivamente sarà chiuso il rubinetto, vista l’ipotesi di nuove proroghe, a ormai due anni dalla originaria durata.
E perché allora non si è fatto prima ciò che si poteva fare e solo adesso scoppia la polemica e il solito tourbillon?
La risposta è nelle mere ragioni contabili che nella sostanza non hanno cambiato nulla, ma che incidono nel breve periodo e quindi sulle prossime consultazioni elettorali. Ecco che il tema diventa un cavallo di battaglia e il bello è che siamo certi che a parti invertite le scelte sarebbero state le medesime. È accaduto che l’Istat e l’Eurostat, ritoccando al ribasso le stime diffuse alla fine dello scorso anno, hanno spiegato che nel 2022 il rapporto deficit/Pil italiano ha toccato quota 8 per cento contro le stime della Nadef (5,6 per cento) per l’impatto dei crediti d’imposta e in particolare del Superbonus. La stessa voce, peraltro, ha portato a rivedere in senso negativo i dati del 2020 e del 2021, pari rispettivamente a -0,2 e -1,8 punti percentuali. E tutto questo per la revisione delle modalità di registrazione nei conti pubblici degli stessi crediti di imposta che sono da classificare pagabili e registrati nel conto consolidato delle pubbliche amministrazioni come spese per l’intero ammontare, ossia nel momento in cui vengono sostenute.
Cerchiamo di spiegare cosa significa questo. Orbene per il Superbonus, che si recupera in cinque anni (per gli interventi realizzati nel 2020 e 2021) o in quattro anni (dal 2022), venivano registrate minori entrate pari a 20 o 25 euro l’anno per i successivi cinque o quattro anni. Dopo la revisione, un credito di imposta di 100 euro (ceduto a terzi) si registra per intero nell’anno in cui vengono effettuati i lavori.
Lo scenario è mutato perché se si consente di cedere il credito di imposta a qualcuno, questo sicuramente lo utilizzerà, mentre nel quadro precedente l’aver acquisito un diritto alla detrazione non si traduceva nell’automatico utilizzo. L’incertezza sul futuro del credito viene meno ed esso viene quindi registrato interamente subito come maggiore spesa. Tutto ciò vale per il bilancio annuale, mentre per quanto riguarda il debito pubblico resta immutato poichè segue un criterio di cassa per cui si effettua la registrazione quando c’è il pagamento effettivo.
La revisione comporta maggiori spese, con un aumento del disavanzo, nell’anno in cui sono stati realizzati i lavori e maggiori entrate, con diminuzione del disavanzo, negli anni successivi. Così per il triennio 2020-2022 c’è un aumento del disavanzo nel complesso per circa 4,4 punti di Pil, mentre nei prossimi anni ci sarà una diminuzione, in base alle stime, per uno 0,8 per cento circa di Pil.
Ecco che per i politici di questi ultimi 20 anni conta solo ciò che succede oggi, tanto pensano che, come diceva John Maynard Keynes, «nel lungo periodo saremo tutti morti».