Vanno ascoltati gli allarmi che arrivano dal Sud del mondo, da chi vive la crisi delle risorse e degli ecosistemi. E bisogna cominciare a discutere di giustizia climatica, senza nascondersi dietro a termini come il prezzemolo linguistico “green”

A Trento, durante il dibattito organizzato dalla Scuola Gea su “Specismo e grandi carnivori” esordisco con un meme che recita: «I grandi carnivori sono pericolosi?». E continuo: «Per rispondere a questa domanda abbiamo invitato in studio degli esseri umani ovvero coloro che si sono disegnati da soli in cima alla catena alimentare». Sperando che mi si perdoni il fatto che recitare un meme durante un dibattito è quantomeno ridicolo, il mio sforzo “memetico” aveva lo scopo di sferzare, da subito, un colpo beffardo all’antropocentrismo; che poi sarebbe più giusto chiamare androcentrismo, visto che, in una consueta scivolata linguistica, si dice «uomo» al posto di «essere umano». Scivolata che sembra quasi più una volontà di evidenziare l’agente, il soggetto, di questo centro.

 

Questo maschile sovraesteso ha amplificato, fino a poco fa, delle voci specifiche, che hanno scelto la direzione e la grammatica con lo scopo di proteggere degli interessi. Parlare, per esempio, di transizione invece che di riconversione ecologica, di sviluppo sostenibile invece che di giustizia climatica (e sociale) ha significato non mettere tutte le carte in tavola, confondere, intenzionalmente, il centro con il margine. O meglio con gli scarti. In un remake di Palombella Rossa forse oggi Nanni Moretti direbbe che «le parole della crisi climatica sono importanti», magari senza schiaffeggiare nessuna. Forse è persino ridondante citare il prezzemolo linguistico che è la parola «green», si è infatti riusciti persino a rovinare un colore. Dobbiamo chiedere con molta più insistenza: ma green per chi? Lo stesso vale, com’è chiaro, per il termine «sviluppo»: che modello di sviluppo si contempla e per chi? Sulla base di quali bisogni e desideri?

 

Il sentimento più banale, il retropensiero più comune, nelle giornate di formazione del Festival dell’ecologia integrale organizzato dalla Scuola Gea è stata la volontà di capirsi e, tuttavia, la difficoltà nel condividere un linguaggio e, in primo luogo, di trovare spazi per incontrarsi e per farlo. Toglierci gli spazi di cittadinanza, eroderli e sgomberarli, ha significato dichiarare guerra alla nostra sopravvivenza su questo pianeta. Questo è stato assolutamente intenzionale. Il nostro presente è infatti intessuto da un desiderio profondo per un mondo migliore, soprattutto è costellato di realtà che si impegnano per realizzarlo. Le risorse devono quindi essere investite lì dove ci si può ascoltare, dove si possono creare comunità di verità con le parole giuste, soppesate e condivise insieme.

 

Vanno allora amplificate le voci dal Sud del mondo, di chi vive la crisi delle risorse e il collasso degli ecosistemi dall’inizio del colonialismo europeo. In “Cospirazione animale,” Marco Reggio scrive di come dove ci sia potere, ci sia sempre resistenza. Credo sia sempre un buon modo di cercare le pratiche di lotta tra i pertugi e gli anfratti più reconditi, dopotutto è vero che la radicalità, cioè l’estirpare alla radice un problema, la troviamo nei luoghi e nelle persone più inimmaginabili, spesso fuori e lontani dai nostri spazi politici. Nel capitolo come “Smontare delicatamente il mondo”, Reggio condivide delle note per un’ecologia non antropocentrica. Scritto a margine di quel capitolo, forse estratto da altri appunti, ho segnato: «Affrontare le sfide, comporre le differenze, accorciare le distanze e soprattutto condividere un destino».

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