Economia
I guasti del reddito di cittadinanza non giustificano la sua abolizione
Le misure previste dal governo devono essere corrette per salvaguardare il principio che le diseguaglianze vanno combattute. Perché quando il welfare statale latita c’è spazio per le mafie
Ci sono macrotemi verso i quali l’approccio di tutte le forze politiche dovrebbe essere unitario e post-ideologico in quanto nessuno, da qualsiasi prospettiva si ponga, può avere dubbi che la crescente diseguaglianza e la conseguente povertà assoluta vanno combattute in nome della civilità, quanto meno perché provocano conflitti e instabilità sociale, frenando lo sviluppo. E ciò a maggior ragione in un contesto storico in cui si registra la maggiore quantità di ricchezza materiale e la maggiore quantità di ingiustizia sociale mai prodotte dall’uomo.
All’inizio di agosto è cominciato l’iter che porterà a fine anno all’abolizione del Reddito di cittadinanza in quanto hanno perso il diritto a riceverlo i nuclei familiari in cui non vi siano minori, disabili, persone di almeno 60 anni o che si trovino in condizioni di svantaggio e siano inserite in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali. Queste persone con un Isee inferiore ai 6 mila euro annui, potranno richiedere da settembre il Supporto per la formazione e il lavoro, pari a 350 euro al mese non rinnovabile, per partecipare a misure di attivazione del lavoro (tra cui il servizio civile universale e i progetti utili alla collettività). A partire dal prossimo anno il Reddito verrà meno per tutti per essere sostituito dall’Assegno di inclusione, cui potrà aggiungersi l’indennità di Supporto per chi non sia conteggiato nella scala di equivalenza dell’Assegno.
Il Reddito ha rappresentato una formidabile evoluzione in materia di contrasto alla povertà, colmando un grave gap storico dell’Italia rispetto ai principali Paesi europei, al di là delle tante ombre dovute alla pessima organizzazione della misura e dei controlli. Tutte le analisi confermano infatti che è diminuita soprattutto la povertà assoluta, non tanto in termini numerici ma soprattutto in termini di intensità, ossia di distanza esistente tra la spesa per consumi e la soglia minima. Purtroppo, l’ambiziosa “ambivalenza” del Reddito tra sostegno sociale e avvio all’occupazione ha generato un oggettivo fallimento nella direzione delle politiche attive del lavoro, determinando la fine anche della parte sacrosanta della misura.
L’accesso è stato subordinato solo al rispetto dei requisiti formali senza alcuna reale interazione con i servizi sociali comunali o i centri per l’impiego che entro un mese avrebbero dovuto convocare i beneficiari, cosa spesso neppure avvenuta. Il Reddito ha mostrato anche altri gravi limiti di impostazione, non contemplando incentivi a cercare lavoro non in nero, escludendo gli stranieri residenti da meno di dieci anni e penalizzando le famiglie numerose, di zone del Paese con un costo della vita elevato. Ai cattivi risultati in termini di reinserimento ha contribuito peraltro la pandemia, la scarsa efficacia dei servizi pubblici di accompagnamento e infine la concentrazione dei beneficiari in alcune regioni del Sud.
Il nuovo sistema comunque è assolutamente inadeguato ed occorre intervenire subito a miglioralo, basandolo sul principio dell’universalismo selettivo. La misura che sostituisce quella universale, è infatti categoriale e viene identificata su base demografica attraverso una mera e semplice associazione fra l’età e l’occupabilità, violando così i principi di equità orizzontale, prescindendo dalla effettiva condizione economica, di uguaglianza sostanziale e dalle differenze di età che incidono sulla possibilità effettiva di trovare lavoro. Le forze di governo hanno già esposto il fianco a fondate critiche ed hanno quindi tutto l’interesse a rimodularne l’assetto anche per evitare strumentalizzazioni con risvolti elettorali che non convengono né a loro né al Paese.
Si è parlato di voto di scambio a proposito di quanto accaduto in alcuni collegi lo scorso anno a favore dei sostenitori del Reddito. L’accusa è destituita di fondamento, come per tutte le norme bandiera (ivi compresa la prebenda di Renziana memoria) tuttavia quanto accaduto resta un fenomeno assai sgradevole, da Paese sottosviluppato, soggetto a gravi pericoli di infiltrazione. D’altra parte alcune organizzazioni criminali hanno basato la loro forza proprio su forme di assistenza per le famiglie degli affiliati, e, seppure in casi isolati, è stata denunciata la sostituzione del sussidio “associativo” con quello statale. È indubbio poi che in alcuni contesti siano stati creati veri e propri centri di assistenza alla richiesta del Reddito che hanno prodotto condizionamenti in sede elettorale. Ogni generalizzazione di casi isolati è assolutamente sbagliata, ma il problema va superato, a maggior ragione perché il principale partito di maggioranza è di destra “sociale”.
Al riguardo sembra una buona soluzione quella proposta dalla Caritas con le due misure complementari dell’Assegno sociale per il lavoro e il Reddito di protezione. In particolare, rimuovono il vincolo che esclude le famiglie prive di ultrasessantenni, disabili e/o minori, ridisegnano le soglie di accesso per tenere conto dei diversi costi della casa per area geografica, ripristinano le scale di equivalenza e configurano l’Assegno per il lavoro come misura integrativa, e non sostitutiva, per tutti i disoccupati che non abbiano il sussidio di disoccupazione o lo abbiano esaurito, per almeno un anno. Si tratta in ogni caso di attuare valori fondamentali della persona che non hanno colore e di attuare pienamente l’art. 38 della Costituzione che inconfutabilmente afferma che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale e i lavoratori hanno diritto che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».