Come dimostrano i casi della giovane uccisa dai familiari e dell'autrice del libro "Siria mon amour", avere documenti regolari del nostro Paese diventa la via verso libertà e indipendenza. Soprattutto da una cultura patriarcale

Saman Abbas, di origini pakistane, è stata uccisa in Italia perché si era opposta a un matrimonio combinato. Per la sua morte sono stati condannati all’ergastolo i genitori e a quattordici anni lo zio. Ma quante sono le giovani in pericolo come Saman e come si possono aiutare?

 

Amani El Nasif, di origini siriane, ma cresciuta a Bassano del Grappa, a sedici anni è stata ingannata dalla sua famiglia. Con la scusa di dover rifare i documenti, infatti, le hanno fatto raggiungere il villaggio paterno in Siria, dove ha scoperto che avrebbe definitivamente dovuto cambiare vita: abiti diversi, cellulare sotto sequestro per interrompere i contatti con l’Italia, obblighi, limitazioni delle sue libertà. Ha provato a togliersi la vita quando le hanno imposto di sposarsi con un cugino ed è riuscita a salvarsi solo trecentonovantanove giorni dopo grazie a uno zio professore universitario di Aleppo. Anni dopo, finalmente al sicuro, ha scritto un libro sulla sua storia: “Siria mon amour” con Cristina Obber.

 

«Ho scoperto che non ero più una figlia, ma una merce di scambio. Con il tempo ho capito che anche mia madre era una vittima in quel contesto perché, in quanto donna, non poteva imporsi e aiutarmi. Ero stata cresciuta in modo libero, ragionavo da ragazza italiana, mi vestivo come desideravo, ma tutto era cambiato. Sono ritornata in Italia due mesi prima di compiere diciotto anni e fino a quel giorno ho finto che andasse tutto bene. Poi sono uscita senza cambi, senza valigie, solo con il documento e ho interrotto i rapporti per due anni con la mia famiglia».

 

«Per salvare altre ragazze io consiglio di parlarne fuori casa: fatelo con gli insegnanti e, se lavorate, fatelo al lavoro. Non dobbiamo essere invisibili, se ne manca una dal contesto sociale, si deve intervenire. Il mio fidanzatino di quegli anni era andato dagli assistenti sociali quando ero sparita, ma non potevano fare niente perché, anche se se vivevo in Italia da quando avevo tre anni, ero andata a scuola e lavoravo, non avevo la cittadinanza italiana e il mio Paese non poteva difendermi. Avere la cittadinanza vuole dire avere dei diritti ed essere libere, non averla vuole dire la fine. Per me non è solo un documento. Anche Saman era tornata a casa per riprendere i suoi documenti: anche per lei rappresentavano la libertà e l’indipendenza».

 

Mi spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: «Queste ragazze sono invisibili, manca un reale progetto di integrazione. Conosciamo gli uomini delle comunità perché lavorano, ma loro improvvisamente spariscono. Sembra che ciò che accade in queste comunità non sia di nostro interesse. Però poi succede che Saman viene uccisa. In Pakistan, nel 2022, ci sono stati 384 delitti d’onore. È evidente che c’è un problema».

 

«Queste ragazze sono fortissime, malgrado siano disintegrate dalla fine del rapporto con la famiglia», dice Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea. «Spesso subiscono violenze e si salvano per l’intervento di un contatto in Italia. Una ragazza è partita minorenne e siamo riusciti a farla rientrare grazie all’allarme del fidanzato, ma è stato complicatissimo. Ora è in una casa rifugio e farà un percorso che la porterà all’autonomia. Il dipartimento per le Pari Opportunità dovrebbe attivare un piano di azione con i vari ministeri grazie al quale costruire un programma di coordinamento e di prevenzione».