Vendere attività per ripianare i debiti è una delle strategie evocate dagli Stati in difficoltà. Ma tra complicazioni tecniche e scarsa volontà politica, l’incasso previsto non viene mai rispettato

Parlando di privatizzazioni, la mia quasi trentennale esperienza lavorativa al Fondo Monetario Internazionale mi ha insegnato che quando uno Stato ha molto debito e non sa come ridurlo tira inevitabilmente fuori dal cappello, come i prestigiatori fanno coi conigli, un piano di privatizzazioni. Il motivo è semplice: ridurre il debito tagliando la spesa o aumentando le tasse costa politicamente. Purtroppo alla fine anche privatizzare non è facile e i relativi piani, di norma, non vengono realizzati se non in misura minima. Esempio fra tutti il piano di privatizzazione greco dei primi anni ’10: doveva far incassare 50 miliardi di euro (il 17% del debito), ma poco venne realizzato. Anche a casa nostra le privatizzazioni promesse nell’ultimo quarto di secolo sono state di norma disattese. Questo governo aveva annunciato nel settembre 2023 entrate da privatizzazioni dell’1% del Pil nel triennio 2024-26. Sette mesi dopo, nel Documento di Economia e Finanze dell’aprile 2024 l’1% restava ma spostando le entrate al 2025-27. Roba da milleproroghe.

 

Privatizzare è difficile per tanti motivi.

 

Primo, le attività che possono essere vendute sono molto inferiori a quanto viene elencato dalla Ragioneria Generale dello Stato nel documento “Il patrimonio dello Stato”. Lì ci stanno, per esempio centinaia di miliardi di crediti fiscali (imposte non pagate) che non sono più di fatto incassabili e quindi nessune le comprerebbe. Ci stanno anche i prestiti che lo Stato ha fatto ad altri paesi (esempio la Grecia) o le quote di partecipazione in organismi internazionali. Ci stanno immobili invendibili perché occupati dalla pubblica amministrazione o la cui vendita richiederebbe spese di bonifica eccessive e che quindi hanno un valore di mercato nullo. Quello che è facilmente vendibile è limitato ad azioni di imprese quotate in borsa di cui il governo vuol però mantenere il controllo (oltre agli articoli pubblicati in questo numero, si veda, in proposito, il lavoro “Le privatizzazioni del governo Meloni” di Massimo Bordignon e Leoluca Virgadamo sul sito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani).

 

Secondo, le attività più facilmente vendibili sono anche quelle che rendono di più: venderle significa peggiorare i conti pubblici nel medio termine perché il risparmio sulla spesa per interessi derivante dalla riduzione del debito è inferiore al rendimento delle attività privatizzate. Terzo, una buona parte degli immobili che potrebbero essere venduti è di proprietà non dello stato ma di enti locali. Se lo Stato volesse utilizzare la vendita di questi immobili per ridurre il debito pubblico dovrebbe convincere gli enti territoriali a privatizzare e poi lasciarsi sequestrare le entrate visto che gli enti territoriali non hanno un debito elevato. Quarto, la frammentazione della proprietà delle attività privatizzabili in un numero elevato di enti territoriali comporta anche la necessità di avere una capacità tecnica a livello locale per realizzare un piano di privatizzazioni, cosa non frequente.

 

Infine, ci sono interessi politici e personali: c’è chi perderebbe potere se, per esempio, imprese pubbliche fossero privatizzate. Proprietà vuol anche dire potere (basta pensare alla Rai). Insomma, non c’è da meravigliarsi se le entrate da privatizzazione anche nel caso del governo Meloni saranno inferiori al previsto.