Il Presidente della Repubblica paga un prezzo per la sua difesa delle regole. Ma certo non si tira indietro

Sergio Mattarella è lì, saldo come una roccia. I sondaggi confermano ogni settimana che è di gran lunga il personaggio politico più popolare, forte dell’apprezzamento di sette italiani su dieci. Viaggia, riceve, dialoga e interviene come mai nessuno dei suoi predecessori aveva fatto. I leader di entrambi gli schieramenti lodano puntualmente la sua autorevolezza, la sua saggezza, la sua imparzialità. Ma è sempre più chiaro che il Presidente cammina su un filo sottile, teso tra il rigore istituzionale e il peso della propria coscienza. È una strada stretta e a volte tortuosa, illuminata solo dal faro della Costituzione. E mai come ora sembra che lui incarni l’immagine di un arbitro che, pur essendo al centro del campo, con il delicatissimo compito di far rispettare le regole del gioco, avverte quella solitudine che, diceva Schopenhauer, «è il destino di tutti i grandi spiriti». 

 

Perché non è difficile immaginare quali pensieri possano attraversare la mente di un uomo dai principi solidissimi come Mattarella - che non esitò a dimettersi da ministro, quando il governo Andreotti varò la legge Mammì che consolidava il dominio di Berlusconi nel mercato televisivo - quando si trova a dover firmare i provvedimenti del governo Meloni. Lui stesso lo ha pubblicamente ammesso: «Più volte mi è capitato di promulgare una legge che non condivido, che ritengo sbagliata, inopportuna». Quali leggi? Forse il decreto sui rave party, la legge che spedisce i migranti in Albania, la proroga infinita delle concessioni balneari, l’Autonomia Differenziata che lacera il Paese o la norma che dichiara la gestazione per altri un reato universale. Provvedimenti che Mattarella ha firmato senza mai esprimere il suo dissenso, perché lui è il primo a sapere che il Capo dello Stato ha il dovere di promulgare le leggi approvate dal Parlamento, anche quelle che non condivide, salvo evidenti violazioni della Carta costituzionale. Certo, il Quirinale usa da tempo lo strumento della moral suasion, e non si tira indietro quando c’è da segnalare a Palazzo Chigi eventuali storture costituzionali, spesso evitando con il dialogo che errori politici diventino ferite istituzionali. Ma la lealtà ha un prezzo: la solitudine. Nessuno ha dimenticato l’episodio di Pisa, quando Mattarella criticò le cariche della polizia («I manganelli sui ragazzi rappresentano un fallimento») e Giorgia Meloni consegnò a Facebook un commento gelido: «Pericoloso far mancare il sostegno alla polizia». Eppure, anche dopo quell’episodio, il Presidente è intervenuto con efficace discrezione quando l’Italia rischiava l’isolamento internazionale. Ha difeso gli sforzi economici del governo, chiedendo alle agenzie di rating di considerare il contesto. Ha apertamente appoggiato la candidatura di Raffaele Fitto come commissario europeo, accogliendolo al Quirinale in piena tempesta politica.

 

Ma la solenne bacchettata a Elon Musk, caso senza precedenti di un Capo dello Stato che risponde a un privato cittadino straniero, conferma che Mattarella non si piega. «Sergio leone» ha titolato con l’abituale efficacia della sintesi il Manifesto. E la sua solitudine - che non è solo quella dell’arbitro imparziale ma anche quella dell’uomo che vede la deriva di un sistema che dovrebbe proteggere - diventa la sua forza. È il prezzo che paga un uomo che non cerca il consenso, ma la coerenza. Un arbitro che non ha paura di fischiare, anche quando gli altri fanno finta di non sentire. Un presidente che non si limita a vigi- lare sulle regole, ma le difende con il peso della propria credibilità.