Sappiamo poco di chi amiamo, e non sempre siamo in grado di riconoscere i segnali di violenza

I casi di cronaca, anche quando differiscono nei modi e per i protagonisti, svelano le nostre paure più inconfessabili. Ci immedesimiamo con le vittime e con chi ha convissuto con i killer senza accorgersi del pericolo. Dimostrano che non esiste la normalità, che non conosciamo chi amiamo, che non sempre siamo in grado di riconoscere i segnali.

Lo psichiatra psicanalista Leonardo Mendolicchio sostiene che «dobbiamo avere il coraggio di dire che si vive insieme, sotto lo stesso tetto, portiamo lo stesso cognome, ma non viviamo rapporti profondi con il partner, i figli, i vicini, viviamo una quotidianità in cui si convive, ma con ignoranza. Conoscere non vuol dire ledere la libertà, conoscere il loro modo di parlare e di pensare è un dovere».

Brooke Skylar Richardson a diciotto anni, nel 2017, venne arrestata nell’Ohio perché accusata di omicidio per la morte della sua bambina seppellita subito dopo il parto nel giardino di casa. Aveva tenuto la gravidanza nascosta alla sua famiglia e aveva partorito da sola, nella notte, pochi giorni prima del ballo di fine anno. Ha sempre sostenuto che il bambino fosse nato morto e che avesse tenuto nascosto il parto per paura del giudizio e della pressione sociale: era una studentessa modello, una cheerleader, amava i bambini, era impegnata nel sociale, non faceva uso di droga o alcol, aveva avuto diversi disturbi alimentari. La madre l’aveva accompagnata dal medico per farle prendere precauzioni subito dopo aver appreso che si era fidanzata. Una ragazza sostenuta dal suo contesto familiare e sociale, insomma.

«Il genitore non basta. Non è l’unica risposta educativa. Siamo connessi, ma viviamo in profonda solitudine. Bisogna creare un network educativo che si diversifichi, ma lavori insieme: genitori, insegnanti, sport, mondo delle associazioni», aggiunge Mendolicchio. La storia di Brooke ci riporta in Italia a un caso simile: Chiara Petrolini, a ventuno anni, ha partorito due volte e seppellito i suoi neonati nel giardino di casa. È stata descritta come una brava ragazza, di buona famiglia, amante dei bambini, una brava studentessa, sentimentalmente serena. Lo psichiatra li definisce cliché: «Oggi l’immagine viene confusa con la cifra della persona e ci basta, così siamo a posto con la nostra coscienza. La verità è che i parametri con cui valutiamo la vita dei nostri figli sono miseri. Non basta il percepito». Le bugie di Chiara, la testimonianza di Filippo Turetta in questi giorni condivisa in diversi programmi televisivi, il profilo del killer diciassettenne che ha ucciso Maria Campai, ci mostrano una realtà sconvolgente: i ragazzi non sono più spaventati dalla violenza? «I ragazzi sono cresciuti con i videogame in cui il sangue è normale – conclude Mendolicchio – Il cervello si allena a recepire gli stimoli e quando sono costanti diventano le lenti con le quali vedi il mondo. La violenza è entrata nella loro quotidianità: viviamo in un mondo violento. La rabbia sociale è esplosa e quando c’è malessere questo può esprimersi con rabbia latente che diventa violenza».