La creatura di Grillo resiste alla volontà del fondatore di chiudere tutto. È il paradigma del potere

Beppe Grillo si è ormai trasformato in un Jep Gambardella versione pentastellata, con una sola ambizione dichiarata: far fallire quella “festa” che lui stesso aveva aperto e da cui ora vuole scappare. Non ha in mente una fuga spettacolare, anche se il suo palese rifiuto di andare a votare alle Regionali della Liguria era un evidente gesto teatrale. No, l’idea è proprio di spegnere le luci, abbassare la saracinesca e decretare ufficialmente la fine del Movimento 5 Stelle. Per Grillo, il M5S è «evaporato», è un residuo organico da compostare, pieno di zuccheri e proteine, ma niente di più. È rimasto forse un «humus» politico, dice lui, ma ciò che conta per il fondatore è che l’esperimento finisca una volta per tutte. E questa è davvero un’impresa senza precedenti. Perché lui non è stato certo il primo a fondare un partito di cui era il padre-padrone: dall’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini all’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, per non parlare di Forza Italia, l’impresa era già stata compiuta da altri. Nessuno, però, ha mai voluto – o forse potuto – spegnere l’insegna e appendere fuori dalla porta il cartello «Chiuso per fallimento».

Sono passati diciassette anni dal Vaffa Day dove tutto cominciò e ormai lo show politico del comico genovese è diventato una tragicommedia: il protagonista non è solo un padre che guarda deluso la sua creatura ribellarsi contro di lui. È anche un proprietario irritato che non vuole lasciare il proprio marchio a un “usurpatore”. Il nemico, che evita persino di nominare, è Giuseppe Conte, l’ex erede trasformatosi in Mago di Oz di un Movimento che Grillo non riconosce più. In questo teatro dell’assurdo, entrambi recitano il dramma del potere: Grillo, proprietario di simbolo e nome, gioca la carta dell'eredità, mentre Conte, maestro di mosse legali e di statuti riscritti, sterilizza il fondatore e lo riduce a un ruolo di consigliere pagato, sino al momento di spegnere il microfono. Ora, con il contratto di consulenza disdetto e un’eredità politica alla deriva, Grillo non vuole solo riprendersi il simbolo: vuole la morte del Movimento. Ma il M5S è ormai entrato nel sistema.

L’originario «uno vale uno» si è perso per strada, e adesso la nomenklatura pentastellata punta innanzitutto alla sopravvivenza: accetta il finanziamento pubblico, un tempo odiato, e vuole abolire il limite dei due mandati per garantirsi una vita politica duratura. E qui sta il paradosso di Grillo. Dopo aver portato in Parlamento facce nuove e antisistema, si ritrova a guardare un Movimento che non è più suo (e neppure suo figlio) ma ormai è una macchina alimentata da quel potere da cui lui stesso, in fondo, voleva fuggire. Tentare di chiudere un partito non è certo come accendere e spegnere un microfono, e Grillo scopre amaramente che l’organizzazione politica, come spiegava un secolo fa il sociologo Roberto Michels, è un apparato in cui l’ideale è condannato a trasformarsi in fine a se stesso. Così, nell’atto finale di questa storia, Grillo potrebbe andare davvero incontro a una cocente sconfitta: il Movimento potrebbe sopravvivere a lui, con o senza simboli, mantenendo quel posto nel sistema che un tempo dichiarava di voler distruggere. Forse alla fine del viaggio, la “grande bellezza” del potere sta proprio qui: l’utopia è fragile e mutevole, e anche il fondatore che urla “chiudete tutto” è destinato a scoprire che la sua creatura, come tutte, è cresciuta abbastanza da voler restare.