Belle storie
«Sì, mio padre si è suicidato. Ed è ora di affrontare questo tabù»
Nel suo libro il giornalista Lorenzo Tosa racconta la storia del papà che si è tolto la vita nel 1986. Per cercare di capirne le ragioni ma, soprattutto, per affrontare uno dei grandi rimossi della nostra epoca
«Il giorno in cui decise di morire, mio padre ci aveva accompagnati all’asilo. Nessuno lo vide più e lui non disse nulla. Non lasciò carta dietro di sé, non un biglietto in tasca, non una spiegazione, non una lettera d’addio». Inizia così il libro del giornalista Lorenzo Tosa (Vorrei chiederti di quel giorno - edito da Rizzoli), una catarsi alla scoperta della vita di suo padre Bruno che a trentatré anni si suicidò, quando lui aveva solo due anni e mezzo.
Lorenzo compie un viaggio di ricostruzione per cercare una risposta fra le più difficili della sua esistenza, una ricerca che per trentotto anni aveva rimandato: sapere perché suo padre, un pomeriggio di aprile del 1986, avesse deciso di salire su un ponte lanciandosi nel vuoto. Naturalmente non riuscirà mai a ottenere una risposta, ma – attraverso il passato, gli incontri, gli amori, l’amicizia, la militanza politica in Lotta Continua, le utopie degli anni Settanta e le delusioni professionali – riuscirà a scoprire completamente la parte più profonda di quel padre perduto troppo presto.
Il suicidio è un tabù per la società, una condanna per chi resta. «Ed è per questo che ho scritto il libro: per scrostare questa patina di vergogna. Il suicidio viene negato nelle narrazioni, nei film, nei libri, eppure riguarda milioni di famiglie. Spero, nel mio piccolo, di alzare il volume della voce con le parole più giuste e consapevoli, per trovare il coraggio di parlarne poi tutti insieme. Mio padre non è stato un personaggio famoso, ma un emblema di una storia comune a tanti». Chi resta sopravvive con il senso di colpa, si chiede cosa si poteva capire; oppure c’è chi, come un figlio o una moglie, si chiede perché il suo amore non sia stato una ragione sufficiente per salvarsi, non sia stato abbastanza.
«Il suicidio è qualcosa di complesso, non riconducibile a un singolo fattore. Non riguarda solo un figlio, un amore. Siamo tutti chiamati a raccolta, ma più come società che forse ha delle mancanze su questi temi. E in quegli anni ancora di più, perché si parlava meno di salute mentale». Nel libro si legge che «delle quasi tremila persone che si sono gettate dal Golden Gate in ottantasei anni di storia, solo ventisei sono sopravvissute. Quando hanno chiesto loro cosa li avesse spinti e cosa avessero provato nel farlo, tutti e ventisei hanno risposto di essersi pentiti nell’istante stesso in cui erano già in volo. Tutti, nessuno escluso (…) Darei tutto quello che ho per sapere qual è stato il tuo ultimo pensiero. No, non quello che tra qualche minuto farai in volo, quando ti pentirai di quello che hai appena fatto come i ventisei sopravvissuti del Golden Gate. Quella è paura, un sentimento fatale, statistico. Mi riferisco a quello che ti passa per la mente proprio adesso, mentre te ne stai in piedi sul cornicione e ti aggrappi forte alle sbarre d’acciaio cercando un punto d’equilibrio».
Quando chiedo a Lorenzo quale domanda abbia trovato davvero una risposta alla fine del libro, mi confessa: «Quella su chi era mio padre. Ho potuto riappropriarmi della fragilità e della complessità della vita di un uomo e della sua dignità. Quando si muore, si diventa quasi un santino: eccezionale, generoso, e lo era, era anche queste cose, ma anche tante contraddizioni. E quando ricostruisci chi sia stato tuo padre scopri anche molto su te stesso».