Cose preziose

«Il compito della letteratura è (anche) quello di ricordarci che la classe operaia esiste»

di Loredana Lipperini   27 febbraio 2024

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Walter Benjamin parlò di politicizzazione dell’estetica, invitando a usare l’arte per risvegliare coscienze. Ecco perché, in tempi in cui la militanza viene disincentivata, è la via per tenere alta l'attenzione sui problemi e sulle tragedie del lavoro

Crolla un cantiere, muoiono gli operai, e per qualche giorno ci si ricorda vicendevolmente che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e si diffondono le statistiche sulle morti di coloro che vengono schiantati da una trave o travolti da un treno mentre mettono in pratica l’articolo 1, che per esteso aggiunge «democratica» a «Repubblica», e qui ci si ferma, perché il senso di quell’aggettivo è al momento assai vacillante. Il punto è che ormai, nella nostra fame nervosa di informazione, quelle storie e quelle degli altri morti verranno dimenticate, e probabilmente già oggi saremo impegnati a commentare l’ennesimo salto mortale con triplo avvitamento carpiato di Stefano Bandecchi, sindaco, poi non più sindaco, poi di nuovo sindaco di Terni.

È qui che dovrebbero entrare in campo gli scrittori e le scrittrici, da ultimo anche giustamente preoccupatissimi per lo spoils system, ma, a quanto pare, molto meno toccati da quel che avviene nel mondo reale, salvo nobili ma rare eccezioni. Per esempio Alberto Prunetti, che ha fondato la collana Working Class della casa editrice Alegre, e che scrive sconsolato: «Le storie operaie finiscono male. Questo si sente spesso dire nel mondo dell’editoria, dove si preferiscono storie in cui i giovani a 22 anni si divertono e fanno i master all’estero, non quelle degli operai, che “non esistono più”. Poi arriva una tragedia e scopriamo che gli operai esistono e ne muoiono tre al giorno in Italia». Per la cronaca, il secondo festival di letteratura working class si terrà dal 5 al 7 aprile prossimi a Campi Bisenzio, nei locali dell’ex Gkn.

Il dibattito italiano sull’impegno in letteratura non è riassumibile in poche righe: quel che si teme, però, è che a forza di dire che l’impegno svaluta la qualità, molti e troppi si frenano, e preferiscono parlare di sé, della propria famiglia o di avvenimenti, sì, potenzialmente corrosivi, ma avvenuti in passato, in modo da non venir accusati di eccessiva militanza. Atteggiamento che, ricordava lo scrittore Girolamo De Michele, fa tornare in mente «i tempi in cui Battisti e Mogol fondarono l’etichetta “Acqua Azzurra” per contrapporre la musica disimpegnata e sentimentale all’ondata di impegno politico che stava egemonizzando i testi e le musiche di cantanti e gruppi». Ancora De Michele suggerisce allora, e giustamente, di tornare almeno al Walter Benjamin che parlò di politicizzazione dell’estetica, invitando a usare l’arte per risvegliare coscienze.

Mi rendo conto che un’affermazione del genere, oggi, manderebbe il canone di traverso a parecchi, ma l’idea che la letteratura sia avulsa da quanto ci accade intorno è difficile da digerire. Peraltro è di difficile digestione anche constatare la verità di quanto Benjamin notava nei Passages: «L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morrà di morte naturale».

La cosa preziosa di oggi è allora un libro che viene dal passato: esce per Interlinea e si intitola Piazza Fontana. La strage e Pinelli: la poesia non dimentica. Nell’antologia curata da Angelo Caccione si ritrovano, fra gli altri, il Pasolini di Patmos e il Giovanni Raboni de L’alibi del morto. Cose di ieri, di sicuro, però fa un certo effetto leggere la porta della Storia è una porta stretta / infilarsi dentro costa una spaventosa fatica. Magari serve, anche.