Un colpo definitivo ai boss locali delle clientele può venire dall’abolizione delle preferenze. La segreteria ha il dovere di provarci

Se è vero che si impara più dagli sbagli che dai successi, il doppio schiaffo che il Pd ha ricevuto prima a Bari e poi a Torino offre al maggior partito del centrosinistra l’occasione di una svolta politica che lo faccia uscire dalla palude in cui è finito. Una svolta che dovrebbe cominciare proprio dalle due città dove le inchieste sul voto di scambio hanno proiettato l’ombra del sospetto sulla sua gestione del potere, se si vuole salvare l’esempio di buongoverno e di onestà che finora hanno dato Antonio Decaro e Stefano Lo Russo, i due sindaci del Pd.

 

Sia chiaro: nessuno pensa che il Pd di Elly Schlein sia un partito clientelare, perché è fuor di dubbio che ancora oggi la sua forza è fondata sulla passione pulita dei suoi militanti e soprattutto dei suoi elettori. Ma chi ha raccolto l’eredità delle battaglie politiche di Enrico Berlinguer, di Sandro Pertini, di Benigno Zaccagnini e di Ugo La Malfa, che per tutta la vita combatterono quello che veniva chiamato il sistema di potere democristiano non può tollerare che all’ombra delle sue bandiere si sviluppi un nuovo sistema di potere basato sugli stessi metodi che usavano i Gava, i Lima, i Bisaglia e gli Sbardella, quello che Percy Allum definì «il boss system» della politica clientelare, poi adottato con alterne fortune dai valvassori socialdemocratici e dai feudatari craxiani.

 

Nel Pd l’allarme è suonato da un pezzo, con gli arresti di “Mafia capitale” a  Roma e con la scoperta di migliaia di tessere false in Campania, entrambi indizi rivelatori di un meccanismo truccato e di un impianto corrotto, fondato sul voto di scambio, sulla compravendita delle preferenze e sull’ingaggio dei politicanti di professione che non portano consenso ma pacchetti di voti. Ma le contromisure non sono scattate, o non sono bastate.

 

Eppure c’è un modo per provare a sradicare la pianta del malaffare dalla politica, a cominciare dal governo delle città: eliminare il mercato delle preferenze. Che non sono - come in buona fede credono i contestatori delle insopportabili liste bloccate - la cura per la democrazia. Le preferenze sono la vera malattia, sono l’eredità avvelenata che ci ha lasciato la Prima Repubblica, sono il meccanismo perverso che permetteva già un secolo fa al regime di controllare i voti uno per uno. «I fascisti - denunciò Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso alla Camera - consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi, variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto».

 

Gli italiani l’avevano capito, e infatti il 9 giugno 1991 assestarono il primo colpo a quel sistema, con il referendum sulle preferenze promosso proprio da un democristiano perbene come Mario Segni, che le ridusse a una sola. Il passo successivo sarebbe stato il passaggio all’uninominale puro, ma gli apparati di partito hanno impedito che questo passo venisse compiuto. L’abolizione delle preferenze e l’adozione del sistema uninominale per ogni tipo di elezione - dai Consigli comunali al Parlamento - è dunque una battaglia che merita di essere combattuta. Una chance che Elly Schlein non dovrebbe lasciarsi sfuggire, se vuole che il Partito democratico possa ancora alzare la bandiera della politica pulita.