La sinistra si chieda se una certa inclusività di alcune maggioranze non contempli sconti all’intransigenza. È in gioco la credibilità dell’ambizione di essere alternativi. Non si possono gestire territori con gli stessi metodi degli avversari, figurarsi il Paese

Molti anni fa un esponente della cosiddetta sinistra giustizialista ebbe a lamentarsi di un articolo. Era uno che aveva fatto una brillante carriera sbandierando l’antimafia, salvo acquartierarsi nelle stanze del potere per poi autoconsegnarsi a un prudente oblio, fiutando aria pesante. L’articolo in questione raccontava una fretta sospetta nella concessione di un cambio di destinazione d’uso per un albergo dismesso che sarebbe dovuto diventare, e lo diventò, una clinica. Al governo della cittadina c’era un fedelissimo del big indispettito. Nel testo contestato si citavano i protagonisti dei passaggi amministrativi della delibera, poi ratificata.

Suddivisi per schieramenti, saltava all’occhio una strana identità di vedute tra opposti. Intenzionale o frutto di distrazione, ebbe l’effetto di imprimere alla pratica un’accelerazione fulminea. Per la cronaca, il centro di cura era quello intorno al quale ruotavano i guai giudiziari che hanno portato alla condanna dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, oggi di nuovo sulla breccia, forte di un pacchetto di 140 mila voti già squadernati sul banco delle Europee.

«Così non vinciamo, così non vinciamo», ripeteva al telefono ossessivamente il parlamentare stizzito. Inutile dirgli che né l’articolo né il suo autore fossero in gara. Andò avanti per un po’, fin quando un interrogativo gelò i convenevoli del commiato: «Ma poi, scusi, vincere per fare cosa?».

La domanda si potrebbe girare anche al Pd attuale. Nella frenesia di governo, i passi falsi compiuti in Puglia e Piemonte sono lì a raccontare che molto è andato storto. E il rimedio dovrebbe essere un po’ più di una toppa e, per il futuro, anche in anticipo sull’arrivo dei giudici. Per esempio, interrogandosi tempestivamente se una certa inclusività di alcune maggioranze non contempli parecchi sconti all’intransigenza. Valga la lezione del comunista riformista Pio La Torre (1927-1982) sui compagni in affari. È in gioco la credibilità dell’ambizione di essere alternativi. Non si possono gestire territori con gli stessi metodi degli avversari, figurarsi il Paese. Ed è sterile rinfacciarsi il numero di inquisiti e arrestati perché la bilancia pende sempre dal lato di chi governa.

Nell’approssimarsi della ricorrenza della Liberazione, ancora divisiva nonostante la Costituzione e i 79 anni trascorsi, le categorie fascismo e antifascismo rimangono le più gettonate nel lessico della nostra politica. Ha a che fare, certo, con il fatto che le destre governano, e che soprattutto il partito della premier fatica a liberarsi delle scorie ideologiche che hanno prodotto sangue innocente durante la prima stagione repubblicana. Ma anche che, dall’altra parte, la radicalizzazione dello scontro intorno alla Storia – che non va mai dimenticata ma è lezione di memoria da attualizzare – dà solo un’illusoria coesione e finisce spesso per essere una comoda coperta sotto la quale sentirsi al sicuro nelle proprie salde certezze e mascherare il vuoto di una proposta politica credibile. E di un’unità di intenti autentica su temi basici come economia, tasse, guerra.

Inseguire chi non ti ama come sta facendo il Pd di Elly Schlein con i Cinque Stelle di un Giuseppe Conte neopopulista è il peggiore danno alla propria autostima e costringe a cambiamenti non sempre edificanti. Tanto più se il nemico – «il circolo di capi corrente per posizioni di potere», come lo ha chiamato, andandosene, Leoluca Orlando – lo hai anche in casa. Non si deve vincere per forza. E con ogni mezzo. Non ci si deve snaturare per conquistare chi ti detesta. Né costruire l’alternanza con mezzucci e compromessi. Inevitabilmente al ribasso. Rinviando un’impellente opera di pulizia interna, necessaria in nome della buona politica. Perché, d’accordo, forse si vince. Ma per fare cosa?