Personaggi e Interpreti
Quando si allea il Movimento 5 Stelle fa sempre flop
Tutti i dati lo confermano: se si presentano alle elezioni con altri partiti, i pentastellati raccolgono risultati assai inferiori. Perché i partiti populisti e i loro elettori non vogliono "contaminarsi"
Molti anni fa – esattamente 48: eravamo nel 1976 – il direttore del quotidiano milanese “La Notte” Nino Nutrizio fu protagonista di un episodio che sarebbe entrato nell’antologia della televisione. La trasmissione si chiamava “Tribuna elettorale” e ogni leader politico doveva rispondere alle domande dei giornalisti. Quando venne il suo turno, Nutrizio tirò fuori un pacco di pasta e uno di riso e disse a Enrico Berlinguer, il segretario del Pci che teorizzava il «compromesso storico» con la Dc: «Vede onorevole, questi non possono bollire nella stessa pentola, perché ne verrebbe fuori un intruglio immangiabile». La storia ha dato ragione a Nutrizio, perché i governi di solidarietà nazionale ebbero vita breve, anche se trent’anni dopo gli ex comunisti e gli ex democristiani si sono ritrovati nel Partito democratico.
L’esempio della pasta e del riso sembra adattarsi perfettamente alla non-alleanza tra Elly Schlein e Giuseppe Conte: possono bollire nella stessa pentola chiamata centrosinistra la pasta del riformismo e il riso del populismo? Ad alimentare il dubbio ci pensa puntualmente il presidente del Movimento, la cui ultima mossa è stata l’inserimento nel suo simbolo per le elezioni europee della parola «pace», giusto per sottolineare la divergenza con il Pd sul sostegno militare all’Ucraina.
Ma è soprattutto la bilancia delle urne a dirci che quando questi partiti si alleano due più due non fa mai quattro, ma nel migliore dei casi tre. Il risultato delle elezioni regionali in Basilicata ne è solo l’ultima, chiarissima conferma. Mentre il Partito democratico ha ottenuto quasi la stessa percentuale delle Politiche di un anno e mezzo fa (13,8 per cento contro 15,2) il Movimento Cinque Stelle è crollato dal 25 al 7,6 per cento, perdendo più di due terzi dei suoi elettori.
È sempre andata così, fin dal primo esperimento. Ricordate la foto di Narni? Risale a cinque anni fa, quando Conte, Zingaretti, Di Maio e Speranza salirono sullo stesso palco per annunciare l’alleanza alle elezioni per la Regione Umbria. Non solo persero, ma il M5S raccolse appena il 7,4 per cento, contro il 27,5 delle Politiche. L’anno dopo, in Liguria, i due partiti si allearono per sostenere Ferruccio Sansa (un giornalista del Fatto Quotidiano, dunque un volto amico per i pentastellati) ma il risultato fu lo stesso: il M5S si fermò al 7,8 per cento, robetta rispetto al 30 delle Politiche. Persino quando ha vinto il candidato scelto da Conte – come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi – il Movimento ha subìto un’emorragia di voti, rastrellando solo il 9,7 per cento, meno di un quinto del 51,7 delle Politiche. E prima della batosta lucana di domenica scorsa, la stessa cosa era successa a febbraio in Sardegna – dove Alessandra Todde ha vinto nonostante il flop del suo partito, scivolato dal 21,8 per cento a un modestissimo 7,8 – e a marzo in Abruzzo, dove i Cinque Stelle sono bruscamente calati dal 18,5 al 7 per cento.
Il Movimento dunque fa il pieno di voti quando corre da solo, ma se si allea con qualcun altro perde per strada gran parte dei suoi elettori. I quali, evidentemente, non approvano che il radicalismo populista venga contaminato – se così si può dire – dal realismo riformista. È questa la vera ragione della riluttanza di Conte a mettere il suo riso nella pentola del centrosinistra.