Agli atenei spetta il ruolo di laboratori del pensiero critico, soprattutto in tempi come questi. Il tentativo di silenziare queste voci è inaccettabile in democrazia

Quello che è stato raccontato come il boicottaggio di alcune università nei confronti di Israele è solo una legittima richiesta. Chiede di valutare una possibile destinazione militare dei progetti di ricerca congiunti. Messa così, non solo si tratta di una posizione plausibile, ma che riafferma, contrariamente a quello che pensa e dice la ministra dell’Università Anna Maria Bernini, il ruolo di laboratori del pensiero critico degli atenei. La ricerca è intimamente legata al progresso in tutti i campi e questo di per sé la qualifica come un elemento imprescindibile dell’attività universitaria. Ovviamente, se piegata a fini militari, impone interrogativi alle coscienze di tutti, indipendentemente dalla nazionalità degli istituti con i quali si coopera. Soprattutto quando militare diventa sinonimo di bellico e non soltanto di difesa.

 

Le università, dice l’esponente del governo Meloni, non entrano in guerra e non si schierano. E invece dovrebbero fare l’esatto contrario. Le università non solo hanno tutto il diritto di partecipare al confronto di idee sui temi più controversi ma poi anche quello di far conoscere cosa pensano. Intanto, definendo esattamente ciò che solo una mistificazione può definire «guerra». Perché non i palestinesi, ma i terroristi di Hamas hanno compiuto una violazione dei confini israeliani, mentre la reazione del governo di Benjamin Netanyahu riguarda l’intera popolazione palestinese, a cominciare da quella che abita, o abitava Gaza, configurando l’accusa di genocidio che è materia di confronto alla Corte dell’Aja. Tanto più dopo l’uccisione di 7 cooperanti, giustificata dal premier israeliano come un danno collaterale, appunto, «di guerra». Che è consistito nell’attacco con tre missili in sequenza a un convoglio con insegne visibili della Wck, scatenato solo per il sospetto della presenza di un presunto terrorista. E che ha comunque prodotto l’effetto di interrompere una minima catena di aiuti alimentari per una Gaza alla fame.

 

Se stiamo a discuterne vuol dire che non tutto è chiaro e limpido e chi elabora pensiero per lavoro e missione, come gli atenei, ha il dovere di dare il proprio contributo di scienza. Per le medesime ragioni, nulla dell’intolleranza manifestata nei confronti di civilissime discussioni in ambito accademico su quanto sta accadendo può essere ammessa. Perché non si tratta di contestare ma di zittire. E questo è inaccettabile.

 

In generale deve preoccupare l’idea che si ha a Palazzo Chigi della formazione. Perché sembra ascrivibile alla stessa concezione di un Paese nel quale il pensiero, la libertà e non le sue forme violente sono compressi e repressi. Da una parte i manganelli sugli studenti inermi, dall’altra, per esempio, la bizzarra idea di sanzionare il preside della scuola di Pioltello reo di aver dato un giorno di vacanza – da recuperare – per la fine del Ramadan, che ha richiesto l’ennesima uscita del presidente Sergio Mattarella. Non pago della nuova pessima figura, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che ha un’idea assai approssimativa dello stato della scuola, ha pensato di introdurre le quote per gli alunni che solo lui chiama ancora stranieri. Italiani di nascita e di istruzione, conservano credo e tradizioni familiari. Come tutti. Anziché preoccuparsi che abbiano le medesime opportunità, il ministro vorrebbe regolarne il flusso in classe per decreto. Utilizzando come criterio di valutazione le loro competenze linguistiche, paragonate a quelle, peraltro non proprio esaltanti, di coloro che definirebbe tricolori doc. E questo mentre i numeri sono lì a dimostrare che il nostro è già un Paese multietnico. E lo sarà sempre di più. Per fortuna, vien voglia di dire, perché con questi italiani non si va molto lontano.