Cose preziose

«Giorgia Meloni chiede di identificarci tutti nel suo "me". Ma siamo nati plurali e tali dovremmo rimanere»

di Loredana Lipperini   14 maggio 2024

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Giorgia Meloni

La premier chiede di votarla solo col nome, perché lei è una del popolo. E questo dovrebbe bastare a fidarsi. Ma preservare il "noi" è sempre meglio»

Spuntano ovunque, i faccioni levigati dall’uso sapiente dei filtri, come è sempre avvenuto in campagna elettorale. La novità è che la personalizzazione ha fatto un ulteriore passo avanti con la richiesta della presidente del Consiglio di votarla solo con il suo nome: basta scrivere Giorgia, perché, si sottintende, Giorgia è proprio come voi. La faccenda del sono come voi fa venire in mente una storia molto vecchia: Floro, storico del tempo di Adriano, afferma che Manio Aquilio, comandante romano in Asia, fece avvelenare i pozzi nell’anno 129 a.C. Ma Floro aggiunge che così facendo macchiò l’onore delle armi romane fino a quel momento immacolate.

 

Ora, non sappiamo se l’avvelenamento dei pozzi vada attribuito a un’unica mano, perché, in genere, le mani sono sempre più numerose di quelle dell’untore. Sappiamo però che i pozzi sono avvelenati da un pezzo, e sono anni che avanziamo nella mota della diffidenza reciproca, sospettando gli uni degli altri come in La cosa da un altro mondo di Ramsey Campbell, dove l’alieno mutaforma poteva assumere l’aspetto del tuo amico più caro, e ucciderti, o magari lo uccidevi tu. Ma siamo peggiorati: perché oggi, per paradosso, ci si fida di quelle e quelli che affermano di essere proprio come noi: come se all’alieno in questione fosse bastato dire «non sono un alieno» per continuare in letizia la propria opera di distruzione.

 

Cose note, anche qui. Già nel secolo scorso, David Foster Wallace, in E Unibus Pluram. Gli scrittori americani e la televisione, diceva che nessuno poteva salvarsi, per esempio, dall’influenza del linguaggio televisivo, ma che gli scrittori ne erano consapevoli: «Gli scrittori tendono a essere una razza di guardoni. Tendono ad appostarsi e a spiare. Sono osservatori nati. Sono spettatori». Magari gli scrittori, in quei tempi, potevano davvero osservare e raccontare che, appunto, qualcosa non andava, che i pozzi erano avvelenati e che non bisognava fidarsi dell’alieno rassicurante. Oggi il meccanismo è molto più complesso.

 

Penso a una serie televisiva che non ha nulla a che fare con i faccioni elettorali, ma che è una delle spie della fiducia malriposta: è l’ormai famosissima Baby Reindeer di Richard Gadd. Racconta, come è arcinoto, una storia di stalking subito dal comico scozzese, da una donna instabile di nome Martha e, prima, da un feroce manipolatore. La serie è stata appassionatamente amata: ma contiene un aspetto sinistro, ovvero la richiesta di identificazione con il protagonista, che è il solo portatore della storia. La verità (fidatevi) è la sua, e l’esposizione dei propri abissi chiede, nei fatti, solo una cosa: amatemi, voi che guardate, anche se le mie colpe sono tante. È tutto vero (fidatevi) dal momento che sto parlando di me, e io sono come voi.

 

Ecco, l’avvelenamento dei pozzi, e dei manifesti, e del voto, sta ancora una volta in quel «me». Per questo, la cosa preziosa di oggi è Il tempo degli imprevisti di Helena Janeczek, uscito per Guanda. Nessun «me», ma molti «noi»: una maestra di inizio Novecento, un uomo chiamato K. inseguito a Merano, un ragazzino che a Venezia spia la figlia di Ezra Pound, un coro di avventori di caffè a Trieste, nell’anno delle leggi razziali. Nessuna identificazione richiesta, nessun inganno, ma il desiderio di ricordarci, invece, che siamo nati plurali, e tali dovremmo rimanere.