Nei centri in cui i migranti sono trattenuti in attesa di rimpatrio si vive in condizioni simili alla tortura. Per scappare, i prigionieri sono disposti a tutto. Dovremmo tutti chiedere giustizia contro questi lager

Questo articolo contiene dei contenuti esplicitamente violenti e questi contenuti possono essere, come si dice ormai, «triggeranti» per alcuni lettori. Con il termine trigger si intende, in senso stretto, un «grilletto» capace di risvegliare un passato traumatologico. In gergo ormai si usa per definire qualcosa di oggettivamente violento, crudo e pesante. In Italia, si traduce il trigger warning con «immagini forti», o, ancora più spesso, si scrive che «si sconsiglia il contenuto a un pubblico sensibile». Questa espressione, così comune in Italia e così lontana dall’accezione inglese, mi fa sempre riflettere: è dunque il pubblico a essere (troppo) sensibile? È un audience di bambini, di gente naïve, di gente impressionabile e in opposizione a un universo di persone forti, insensibili, alienate; diversamente da un mondo che sa dissociare e distrarsi.

 

La sera del 28 aprile ha avuto luogo un ulteriore tentativo di fuga dal Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, nei pressi di Gorizia. Otto prigionieri hanno cercato di evadere, tre di essi sono riusciti a far perdere le proprie tracce. Un altro, cadendo dal muro di cinta di circa tre metri si è fratturato la caviglia ed è stato trasportato all’Ospedale di Cattinara, poi è stato riportato nel centro con la gamba ingessata. Gli altri, dopo una notte passata sui tetti per protesta, sono stati riportati in cella. Non importa quanto provare a immedesimarci possa scuoterci: per capire la tortura all’interno dei Cpr bisogna immaginare di scegliere di lanciarsi da tre metri per liberarsi. Così come di portare avanti uno sciopero della fame, di ricevere solo cibo avariato e marcio, di rifiutarsi di essere sedati, di tentare di uccidersi in ogni modo possibile, di cucirsi la bocca per protesta, di organizzarsi in ogni modo per evadere, per sopravvivere.

 

In un articolo di febbraio dell’anno scorso su L’Espresso, scrivevo che i Cpr sono «non-luoghi, buchi neri di tortura, violenza e abusi, veri e propri lager, peraltro totalmente inefficienti e fraudolenti per natura». Più di un anno dopo guardo ai tentativi di fuga che ci sono stati, alle rivolte, agli omicidi, ai suicidi, riusciti e no. Per citare un ex direttore di questo giornale, nel mio ruolo di «modesta storica del presente» alimento la speranza che tramandando quest’immagine di ingiustizia qualcosa cambi. Perché questo sistema è una fotografia che brucia lenta, si deforma in bolle, si gonfia, muta colore e poi diventa cenere.

 

I Cpr hanno lo scopo di annichilire l’essere umano fino al midollo. Un tipo di essere umano specifico, quello che non è «legale» che non è parte della società, che deve essere respinto, rimpatriato. È dunque un essere umano che non vale, quello che non verrà vendicato, per cui non si chiederà giustizia, quello che sparirà nel nulla. La rete “No ai Cpr” continua la sua lotta incessante e a chi non se ne occupa forse deve importare che questa rete diventi rizomatica, che si estenda fino a smuovere ognuno di noi, fino a scuotere le fondamenta della società tutta. «C’è un lager nella tua città», indica il manifesto delle prossime mobilitazioni, e questo deve interessarci; non basta ringraziare il destino per essere nati più liberi di altri, non può esaurirsi a questo il nostro scopo: dobbiamo aver il coraggio di chiedere giustizia anche per gli altri e non solo per noi stessi.