Il Paese è fermo alle corporazioni: ciascuno contribuisce alla spesa pubblica in base alla forza del gruppo a cui appartiene e non in base alle proprie possibilità. Tra aliquote e deroghe, l'evasione fiscale e il minor gettito erodono il welfare

Caro direttore,

 

alzi la mano chi paga le tasse con gioia. No, qui non si chiede che esclami «le tasse sono una cosa bellissima», come fece in tv Tommaso Padoa Schioppa, allora ministro dell’Economia (In mezz’ora, 8 ottobre 2007), però nemmeno «non penso e non dirò mai che le tasse sono una cosa bellissima» (Giorgia Meloni, 13 marzo 2024). Basterebbe pure una via di mezzo, magari pensare che farlo serve a qualcosa… E invece ancora non ci siamo. Anche se sono trascorsi diciassette anni (e dieci governi multicolori), poco è cambiato: prima che il contribuente si appresti al 730 come a un bel gesto occorrerà ancora tempo, e una buona dose di educazione civica, e uno Stato non più debole con i forti e forte con i deboli. Oltre, naturalmente, a una corretta informazione.

 

Una mano in questa direzione la dà Roberto Seghetti – un bravo giornalista esperto di economia (Agi, Paese Sera, Il Messaggero, Panorama, poi portavoce dal 2006 al 2008 del ministro delle Finanze Visco) – con un libro in cui svela molte verità (“Le tasse sono utili”, 239 pagg., euro 17, Nutrimenti). L’intento è convincere il lettore, dati alla mano, che pagare le tasse «è un modo civilissimo di contribuire a servizi indispensabili come la salute e la scuola» (copyright Padoa Schioppa) e che la scarsità di risorse, figlia della diffusa evasione fiscale, spinge i governi a tagliare la spesa altrimenti destinata ai servizi pubblici, peggiorando così qualità della vita e tenuta della democrazia.

 

Lettura utilissima per chi voglia capire. Ricostruendo fatti e circostanze, Seghetti racconta come e perché si sia arrivati alla crisi dello stato sociale; riflette sugli effetti del reaganismo e del thatcherismo sulle politiche fiscali; enumera le crescenti disuguaglianze (95 milioni di persone a rischio povertà in Europa); smonta con esempi precisi i luoghi comuni sulla bontà della flat tax e di una pressione fiscale troppo bassa dimostrando che queste convengono solo ai ricchi.

 

Solo un esempio, a mo’ di metafora: il sistema fiscale italiano si distingue, scrive Seghetti, per la «sostanziale divisione dei contribuenti in base al potere del gruppo di cui fanno parte… Proprio come avveniva nell'Italia dei Comuni, tutto finisce per dipendere dal confronto tra la Signoria che governa e le diverse corporazioni di mestiere: ciascuno ha la sua tassa, ognuno ha il suo sconto… Da decenni molti dei governi che si sono succeduti hanno approvato una miriade di provvedimenti scoordinati legati all'interesse elettorale del momento e volti a favorire ora un settore, ora un altro. Il risultato è che non esiste più un sistema per il quale il reddito viene tassato nello stesso modo per tutti coloro che sono nelle stesse condizioni… Al contrario, in Italia ciascuno contribuisce alle spese pubbliche in base alla forza della propria corporazione e non secondo le proprie possibilità».

 

Lavoratori pubblici e privati, autonomi, insegnanti, agricoltori, pensionati, balneari, ristoratori: a ciascuno la sua aliquota, la sua deroga, il suo bonus, dagli 80 euro di Renzi ai 200 di Draghi ai 100 di Meloni (lordi, eh?), fino al tragico 110 del Conte bis. Tra detrazioni e sconti – alcuni giusti e doverosi, altri solo mancette – se ne calcolano circa 626 nazionali e 114 locali. Ne deriva, dati 2022, un minor gettito di entrate di 83,2 miliardi di euro per le casse dello Stato e di 45,4 per quelle delle amministrazioni locali. L’eterna Italia delle rendite, delle corporazioni, delle agevolazioni. Che anno dopo anno erode le conquiste del welfare: sanità, scuola, trasporti, assistenza sociale... Un’Italia egoista che si fa male da sola.