Anche da questi dettagli nasce lo scetticismo degli italiani, due terzi dei quali sono convinti che nessun partito sia immune dal vizio della corruzione. E a trentadue anni da Mani Pulite pochi hanno fiducia in un cambiamento

«Un politico onesto è uno che quando si vende resta venduto», amava ripetere Simon Cameron, ministro della Guerra di Abramo Lincoln. Il suo disincantato cinismo sembra condiviso oggi da molti italiani, a giudicare dai disarmanti ma non sorprendenti risultati di un sondaggio che Antonio Noto ha rivelato su Repubblica: l’81 per cento degli elettori pensa che quella contro la corruzione sia ormai una battaglia persa.

 

È un dato sul quale bisogna riflettere, mentre dall’inchiesta di Genova su Giovanni Toti continuano a emergere dettagli sempre più imbarazzanti. Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli? In realtà nel 1992 i numeri erano ben diversi, e i protagonisti assai più altolocati. La sola maxitangente Enimont fruttò alla Dc, al Psi e agli altri alleati del pentapartito la fantasmagorica cifra di 150 miliardi (mille volte superiore al versamento di Spinelli a Toti).

 

Il problema è che 32 anni sono passati invano. L’inchiesta di Mani Pulite che ebbe in Antonio Di Pietro il suo protagonista scoperchiò un sistema nel quale la mazzetta era la regola per aggiudicarsi appalti, concessioni o semplicemente la protezione del partito e causò - insieme al referendum popolare che mise fine al mercato delle preferenze - un terremoto politico che segnò la fine di due grandi partiti (la Dc e il Psi), accendendo la speranza che finalmente si voltasse pagina.

 

L’amara verità è che questa speranza è stata tradita dalla politica. Non è riuscita a sradicare la corruzione la sinistra - che pure con Berlinguer aveva fatto della questione morale la sua bandiera - incapace di affondare fino in fondo il bisturi su questa piaga. Non c’è riuscito Berlusconi, che ha deluso la speranza popolare che un politico già ricco potesse finalmente debellare la corruzione. E non c’è riuscita nemmeno la destra, che quando è stata messa alla prova - al Comune di Roma, per esempio - è incappata negli stessi pasticci che contestava ai suoi avversari.

 

Così sono passati vent’anni, prima che il Parlamento varasse nel 2012 una legge anticorruzione (approvata da un governo tecnico, quello di Mario Monti) e altri sette prima che venissero varate regole severissime contro i tangentari (il decreto Spazzacorrotti, di cui va dato il giusto merito al Movimento Cinque Stelle), ma tra prescrizioni, sconti di pena e misure alternative solo pochi politici sono davvero finiti in carcere, e molti dei condannati sono ancora sulla scena. Nel 2012 in Parlamento sedevano 88 inquisiti, e oggi 40 deputati e senatori hanno pendenze con la giustizia (metà di loro per peculato, corruzione, violazione della legge sul finanziamento dei partiti o truffe sui rimborsi spese).

 

In Inghilterra chi è indagato per rimborsi non dovuti lascia la politica, mentre in Italia una condannata per peculato parla ogni giorno nei Tg a nome di Fratelli d’Italia. Anche da questi dettagli nasce lo scetticismo degli italiani, due terzi dei quali sono convinti che nessun partito sia immune dal vizio della corruzione, e uno su dieci oggi sta pensando di esprimere la sua protesta non andando a votare per le europee. Il 10 giugno sarà dunque la percentuale degli astenuti a dirci quanti sono gli elettori che non credono più nell’onestà dei politici.