Cose Preziose
Il talento del governo Meloni nel non rispondere mai a una domanda
La premier fa sparire l’aborto al G7. Il ministro della Cultura quando gli si chiede qualcosa risponde con tutt'altro. L’arte di parlare d’altro è una caratteristica di questo esecutivo
Molti anni fa, Beniamino Placido citò in uno dei suoi inarrivabili articoli la regola aurea del tressette: tornare al colore a cui il compagno di gioco ha chiamato, o bussato. «Lo dice anche il Chitarrella nel suo aureo manuale: Ubi buxatur, ibi tornatur».
Non credo che la compagine governativa conosca il Chitarrella, o forse non gioca proprio a tressette: perché, qualsiasi cosa si chieda loro, parlano d’altro, e dunque si può bussare quanto si vuole, ma non tornano mai. La presidente del Consiglio, per esempio, nega che ci sia mai stato un problema aborto, non nominato nel documento finale del G7. In un capolavoro di alta cucina linguistica che avrebbe suscitato le invidie di Hannibal Lecter, ha sopito e troncato per far sparire la parola stessa, aborto, ma nega che la questione sia stata divisiva e parla d’altro, per esempio della provocazione in aula di quelli che «dileggiano» consegnando un tricolore (sulle botte, invece, non torna, per quanto si bussi).
Il vero capolavoro, però, è quello del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano: interpellato sulle famigerate chat con criminale di Paolo Signorelli, portavoce di Francesco Lollobrigida, non solo non risponde ma annuncia di voler dettare lui l’agenda. «Non ho sentito una parola sui gulag o sui Khmer rossi. Nell’aprile 1975, i Khmer rossi iniziano un vero e proprio genocidio su due milioni di individui massacrati in nome del comunismo. A dettare l’agenda delle notizie voglio essere io. Per me, la notizia di oggi è il massacro di queste persone, a cui noi dobbiamo dedicare la nostra memoria». Va bene, Sangiuliano ha letto George Lakoff, il professore di linguistica a Berkeley che nel 2004, in “Non pensare all’elefante!”, sosteneva che, ogni volta che parliamo, le nostre parole riflettono come vediamo il mondo, e la nostra visione si chiama framing. Se rispondiamo al frame del nostro antagonista politico, gli facciamo un regalo gigantesco: è il suo quello che passerà. Lakoff ha ragione, ma c’è un limite. Perché nel giorno in cui Sangiuliano ha tirato fuori i Khmer rossi non c’era nessun anniversario da onorare, per esempio. E perché magari dovrebbe aggiornare la sua biblioteca con un paio di libri sul tema pubblicati da case editrici sicuramente non di destra: “Centomila giornate di preghiera”, graphic novel di Michael Sterckeman e Loo Hui Phang, uscita per Coconino Press, e “Il sorriso di Pol Pot” di Peter Fröberg Idling, pubblicato da Iperborea. Dettagli, dirà il ministro, che sicuramente alla prossima domanda scomoda dirà che bisogna parlare, che so, del fatto che secondo Pellegrino Artusi le frittate non si giravano, ma andavano servite cotte su un lato solo (il che avrebbe persino una certa pertinenza con il comportamento di questo governo).
Per questo, la cosa preziosa di oggi è “Sette sere” di Jorge Luis Borges, appena uscito per Adelphi a cura di Tommaso Scarano. Nell’ultimo testo, dedicato alla cecità, Borges cita un verso di Goethe: «Tutto ciò che è vicino si allontana». Intendevano, Borges e Goethe, che quando si fa sera le cose più vicine cominciano ad allontanarsi dai nostri occhi, come avviene in vecchiaia, o quando non si vede più. Per chi è in malafede, come i sopra citati, sarebbe un modo più elegante per non rispondere. Per tutti gli altri, è l’invito a guardare oltre e a sperare che il tempo degli inganni e degli svicolamenti cominci almeno ad allontanarsi.