Per il presidente francese, quella del voto del 30 giugno sarà una sfida esistenziale. Che cosa resterà del suo centrismo metamorfico e ambivalente?

Che cosa resterà di questi anni di macronismo? È la domanda da farsi adesso, mentre la parabola di Emmanuel Macron, da tempo declinante, affronta la sfida esistenziale delle elezioni legislative del 30 giugno prossimo, da lui stesso convocate.

 

Il macronismo ha rappresentato una delle vere novità degli anni Duemila, a cavallo fra il tardo Novecento delle ideologie archiviate e il Ventunesimo secolo post-politico e anti-politico. Un fenomeno che ha forzato le categorie, tanto da venire descritto, al medesimo tempo, come neo-elitismo tecnocratico o «populismo mainstream» e da essere riuscito, nella sua fase ascendente, a rimettere in discussione la divisione per antonomasia della politica moderna: quella fra destra e sinistra, nata nel corso della Rivoluzione francese del 1789. Una miscela di registri differenti, giustappunto a conferma di una complessità – e difficoltà – di classificazione, che ha indotto molti osservatori a parlare della «Macronie», un arcipelago-spazio politico fondato sul network trasversale delle relazioni del leader-presidente e su un blocco sociale rappresentato dai ceti borghesi e dalle classi benestanti urbane.

 

Il macronismo è metamorfico e ambivalente; come ha scritto Bernard Guetta su Repubblica nei giorni scorsi, la sua versione attuale (e consolidata) è assimilabile a un «grande centro, moderato, europeo e sempre più keynesiano», strutturato intorno a un partito personale e (già) pigliatutto – quando era elettoralmente vincente – dal nome assai marketing-oriented (prima “La République en Marche”, poi “En Marche!” e, da ultimo, “Renaissance”). Un centrismo radicale e «movimentista», incline alla campagna elettorale permanente e predisposto allo scontro con i partiti sovranisti, come pure al conflitto sociale (dai gilet gialli a quelli verdi).

 

Un mélange postmoderno e flessibile attraverso cui l’inquilino dell’Eliseo ha messo in campo modelli comunicativi differenti. Così, la strategia «jupitérienne» (quella del super presidente-monarca repubblicano «à la Giove») si è alternata con quella del politico-celebrità, anche grazie alla popolarità della moglie Brigitte. E ora, tramontati i fasti del passato e costretto a lottare per la sopravvivenza, Macron ha compiuto un azzardo e rilanciato la posta da autentico pokerista. Con la modalità molto diretta che lo contraddistingue, Romano Prodi ha affermato di recente che «non si vota con il cervello, ma con la pancia, e Macron in questo momento è diventato antipatico»; per giunta, decapitare il re costituisce uno “sport” prediletto dal popolo francese.

 

Nel frattempo, infatti, la dédiabolisation e la normalizzazione del Rassemblement National di Marine Le Pen – supportate dal magnate Vincent Bolloré – hanno continuato a marciare ininterrottamente e sono definitivamente arrivate a compimento in larghi settori della società transalpina. Con il solo inciampo significativo delle dichiarazioni durante gli Europei del “capo” indiscusso della nazionale dei Bleues, Kylian Mbappé, che ha invitato i giovani ad andare a votare per difendere i valori francesi di tolleranza e diversità, dicendosi preoccupato per l’avanzata delle forze politiche «estreme», in sintonia con Macron, con il quale ha sempre avuto un ottimo rapporto. E per il presidente si avvicina a grandi falcate l’ora della verità.