Come sta attualmente la Francia? Ha una febbre robusta e una crisi di sistema in corso ormai da parecchio tempo, che le spericolate manovre del presidente della République non riescono a curare. Anzi, in questo clima di opinione, qualunque cosa dica Emmanuel Macron non fa altro che innalzare la temperatura e le tensioni sociali. L’esecutivo presieduto da François Bayrou, il quarto primo ministro nominato dal 2024 – al punto di indurre vari osservatori transalpini a parlare di un’«italianizzazione» della Quinta Repubblica –, prosegue la sua navigazione alquanto incerta. E che, dopo la condanna di Marine Le Pen, si fa direttamente perigliosa, dal momento che la presidente del Rassemblement national potrebbe rivalersi dichiarando guerra al governo, varato anche grazie alla sua (decisiva) astensione.
Insomma, a funestare i sonni del longevo politico centrista che guida il sesto esecutivo della (doppia) era Macron, oggetto di multiple critiche da sinistra a destra, ci si mette anche la possibile rappresaglia lepenista e l’incubo di fare la fine del suo predecessore, impallinato da una mozione di censura che ha visto appunto il Rn convergere sulle posizioni di censura della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon (d’altronde, si sa, fra “tribuni del popolo” può scattare una certa entente cordiale).
Il processo che ha visto imputata la signora Le Pen riguardava l’appropriazione indebita di fondi pubblici, ovvero l’utilizzo di assistenti retribuiti dal Parlamento europeo per attività politiche in Francia. L’accusa dei giudici, che ha portato alla condanna di altri 23 esponenti del partito erede della formazione per antonomasia dell’estrema destra nazionalista d’Oltralpe, verteva sull’allestimento di un «sistema organizzato» illegale vero e proprio dal 2004 al 2016 per distogliere i fondi pubblici Ue, avvalendosene «a proprio piacimento», mediante tutta una serie di contratti fittizi e fasulli. Di qui, la condanna in primo grado della leader a 4 anni di carcere – di cui 2 senza condizionale, e quindi da scontare agli arresti domiciliari con tanto di braccialetto elettronico –, e soprattutto (autentico casus belli) l’ineleggibilità a pubblici uffici per un quinquennio. Vale a dire, nel caso in cui l’appello presentato dai suoi legali non portasse al rovesciamento della sentenza emessa, l’impossibilità di candidarsi alle elezioni presidenziali previste per il 2027. E il futuro, alla luce di questa decisione del tribunale, appare molto incerto.
Le Pen ha dichiarato che contro di lei è stata sganciata «una bomba atomica», e la «bollosphère» (i media di proprietà del magnate di simpatie tradizionaliste e di ultradestra Vincent Bolloré) ribolle, continuando a evocare senza sosta il «colpo di Stato giudiziario». Nel corso della manifestazione di domenica 6 aprile nella parigina place Vauban – decisamente meno partecipata delle previsioni –, Le Pen si è scagliata contro la «tirannia dei giudici», e tuttavia con meno veemenza e toni ultimativi di quelli delle potenziali reazioni, a parità di situazione, di altri capi “Patrioti”. Parole urlate e concitate, ma mantenendosi sul cammino (finora vittorioso) della «dediabolizzazione» e normalizzazione. Con la finalità, quindi, di salvaguardare una silhouette “presidenziabile” e di inseguire quel voto borghese che le servirebbe per andare oltre le colonne d’Ercole della sua riserva di caccia e del suo domaine reservé elettorale. Sempre assai cospicuo, anche se potrebbe scattare ancora una volta il cordone sanitario volto a fermare l’avanzata di un sovranismo che si presenta con le tinte del blu, ma possiede ancora, sotto molti profili, un cuore nero (e di tenebra).
Nondimeno, l’aria dei tempi risulta dalla sua parte, come lo sono giustappunto settori crescenti di quella che è diventata una gigantesca “emozione pubblica”, lontanissima da qualsivoglia opzione di razionalità politica. Il palcoscenico ideale per la messa in scena dell’ennesimo paradosso neopopulista, quello del “primato delle elezioni”.
I partiti populsovranisti avevano sempre indicato nella procedura elettorale un elemento caratteristico del liberalismo, una manifestazione del suo supposto formalismo di fondo, a cui contrapponevano fieramente una formula di (sedicente) democrazia sostanzialistica. Adesso, invece, i neopopulisti, insieme ai fautori della cosiddetta democrazia illiberale, per arrivare sino ai dittatori nel senso pieno della parola (a partire da Putin), rivendicano la supremazia assoluta del momento elettorale. E, dunque, l’elettoralismo malattia senile del populismo, perché è precisamente nella campagna elettorale (permanente) e negli annunci di “sorti magnifiche e regressive” (in verità, reazionarie e retrotopiche) che i neopopulisti postmoderni – in questo, per l’appunto, diversi dal populismo otto-novecentesco – “danno il meglio di sé”. Con l’obiettivo di arrivare, tramite le elezioni, al potere per indebolire o svuotare direttamente (Trump docet...) lo Stato di diritto, sancendo il divorzio definitivo fra la democrazia – da loro intesa come “democratura” – e il costituzionalismo liberale della rule of law. Paradossi postmoderni di un’epoca che ha seppellito la modernità, imperniata sul tentativo – per quanto faticoso e conflittuale – di declinare insieme liberalismo, diritto, democrazia e mercato.