Anziché capitalizzare l'ultimo successo elettorale attirando il voto dei moderati, la premier coltiva le sue radici missine. Cercando una rivincita sulla storia e schierando l'Italia con i più retrivi alleati europei

La sera del 26 settembre 2022, quando il computer del Viminale certificò che Fratelli d’Italia aveva ottenuto il 26 per cento dei voti, molti si chiesero come Giorgia Meloni avrebbe investito quel patrimonio di consensi prodigiosamente incassato da un partito che la volta prima si era fermato al 4,3 per cento. Qualcuno pensò che avrebbe occupato lo spazio che si stava liberando al centro. E scommise che avrebbe avuto l’astuzia di rompere i ponti con i nostalgici del fascismo per mettersi alla guida di una vasta area di centrodestra. Chi l’ha fatto ha perso la scommessa.

 

Nei primi 19 mesi del suo governo, invece di espandere la sua influenza sugli elettori moderati che una volta votavano per la Dc – l’Italia centrista per definizione – lei ha scelto di alzare orgogliosamente la bandiera della destra con la fiamma missina per affermare la sua supremazia politica. Per prendersi, in nome di quella tradizione di cui si considera l’erede, una rivincita di fronte alla storia. Questo spiega perché si è ben guardata dal troncare i rapporti con il nazionalismo populista e illiberale di Viktor Orbán – un’antica amicizia ostentata in ogni occasione – e non ha neanche pensato di lasciare la guida del Partito dei conservatori e riformisti europei (Ecr), quel variopinto assortimento di sovranisti euroscettici che alla sua nascita fu definito dal leader libdem britannico Nick Clegg «una cricca di pazzi, omofobi, antisemiti e negazionisti del cambiamento climatico».

 

Di quel mondo, Giorgia Meloni è oggi la punta di diamante, anche perché è l’unica ad avere vinto le elezioni nel suo Paese. Da quando lei si è insediata, invece, sono stati drammaticamente puniti nelle urne sia gli spagnoli di Vox, battuti dal socialista Pedro Sánchez, sia i polacchi di Diritto e giustizia, sconfitti dall’arci-europeista Donald Tusk. Risultati che sulla mappa del Vecchio Continente segnalano forse la fine dell’ubriacatura sovranista e che, alla vigilia delle elezioni dell’8 e 9 giugno, avrebbero consigliato un posizionamento prudente a una leader con ambizioni internazionali.

 

Ma la premier italiana ha fatto l’esatto contrario. Prima ha dato ordine di votare contro la dichiarazione europea a favore della comunità Lgbt, schierando l’Italia assieme a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, cioè la fascia orientale del Continente che su questo tema è ancorata al passato. Poi ha teso la mano a Marine Le Pen, il personaggio più importante di quella schiera di populisti di destra «chiaramente anti-europei, spesso molto favorevoli alla Russia e quasi sempre in guerra con lo Stato di diritto», come li ha definiti Ursula von der Leyen. E Meloni ha tenuto a precisare che lei e la leader della destra francese, anche se aderiscono a due gruppi diversi, hanno «dei punti in comune, sul contrasto all’immigrazione illegale, sulla transizione verde e sulla difesa dell’identità europea».

 

Insomma, lei ha scelto di rimanere sotto la sua vecchia insegna. Poteva scommettere sul futuro, ma ha preferito rivendicare il suo passato, rimanendovi religiosamente fedele («Noi non tradiremo», fu la frase conclusiva del suo discorso d’insediamento). Invece di rifondare la destra italiana fuori dal suo recinto storico vuole portare l’Italia nel giardino chiuso della destra europea. A questo punto la vera domanda è: ci riuscirà?