Cose Preziose

Alla fine ci dimentichiamo sempre degli schiavi che muoiono sul lavoro

di Loredana Lipperini   5 luglio 2024

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Oggi piangiamo il bracciante Satnam Singh, lasciato morire dal suo "padrone". Diciotto anni fa il reportage de L’Espresso svelava l’inferno a due passi dalle città che esiste ancora in Puglia. In una storia che tende sempre a ripetersi

Il 20 agosto 1799 Eleonora Pimentel Fonseca sale sul patibolo. Enzo Striano, in uno splendido libro che si chiama Il resto di niente, la immagina mentre, con il cappio al collo, guarda le facce sghignazzanti intorno al palco, quelle del popolo che aveva difeso nei suoi scritti e nelle sue azioni, e mormora, in latino, «Forsan et haec olim meminisse juvabit» («Forse un giorno servirà ricordare tutto questo»). Forse. Perché Striano aggiunge: «Domani avranno già scordato quanto succede adesso: ora però si stanno divertendo, innocenti e crudeli come l’infanzia».

 

Nel giugno 2012 Adidas lancia un nuovo modello di scarpa, JS Roundhouse Mids. Può essere scelta nei colori bianchi, viola, arancione. A corredo, un ceppo di catena da allacciare alla caviglia. Quando le scarpe vengono proposte su Facebook, ottengono 40.000 “mi piace” e 8.000 condivisioni. Poi, pian piano, monta la protesta, finché Adidas fa marcia indietro e le ritira dal mercato. Peraltro, come rivelato dal rapporto della Human Rights Watch del 2015, Adidas, assieme a Gap, Marks&Spencer, H&M, è fra i marchi che fa realizzare i propri prodotti in Cambogia. Le donne che cuciono scarpe lavorano per 50 centesimi all’ora. Scarpe da schiavo, già. Passo avanti.

 

Nel giugno 2024 un uomo di trentuno anni, Satnam Singh, bracciante, paga di 4 euro l’ora, muore dissanguato dopo che un macchinario gli ha tranciato il braccio, e dopo essere stato abbandonato come un sacchetto di spazzatura dal suo datore di lavoro. È uno delle centinaia di migliaia di lavoratori irregolari che, specie d’estate, muoiono come mosche. Nel solo 2015 cadono in tredici. Si accascia un uomo senza nome, trent’anni, del Mali, al lavoro a Rignano Garganico in provincia di Foggia. Si accascia per la fatica, il sole, tutto tranne la fatalità, perché il fato non c’entra, e crolla dentro uno dei 57 cassoni di pomodori che aveva raccolto. Il cadavere non si trova più, c’è solo la storia, e non c’è il nome, e un corpo che cade tra i pomodori, e poi sparisce. Muoiono crollando sui campi, sudati e cotti, stroncati come vecchi cavalli, e quando pure ne veniamo a conoscenza lo dimentichiamo. Così come abbiamo dimenticato, per esempio, Paola Clemente, che proprio in quell’estate cade lavorando all’acinellatura dell’uva: ha 49 anni quando muore. Si alzava alle due del mattino e raggiungeva Andria, dove sono i campi, in due ore e mezza di pullman. Riceveva 27 euro al giorno, 257 netti per un mese di massacro quotidiano sotto il sole, a braccia alzate.

 

Ma si dimentica sempre in fretta. Sono passati diciotto anni dal famoso reportage de L’Espresso a firma di Fabrizio Gatti, quando si finse bracciante e scoprì l’inferno, un inferno piccolo, domestico, tollerato, a due passi dalle città ancora lontane dalla crisi. Storie lontane, che eppure si ripetono ancora.

 

Per questo, la cosa preziosa di oggi è Le madri lontane di Stefania Prandi, da poco pubblicato da People. Prandi è l’autrice di un altro libro da non dimenticare, Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Stavolta segue le storie delle braccianti rumene e bulgare che lavorano, spesso in nero, alla raccolta della frutta e della verdura, e degli orfani bianchi, i loro figli, che crescono con le madri spezzate da un lavoro disumano. Un lavoro da schiavi. Forsan et haec olim meminisse juvabit («Forse un giorno servirà ricordare tutto questo»). Forse.