Il problema riguarda soprattutto i giovani, ma così il disturbo diventa un fatto consumistico e individuale. E si perde del tutto la dimensione del rapporto interpersonale

Sempre più spesso sui social appaiono pagine che sponsorizzano diagnosi psichiatriche o psicologiche. In passato definizioni stigmatizzanti, le diagnosi sembrano oggi identità desiderabili per le nuove generazioni. Facilmente si può compilare un test su Instagram per scoprire se si ha l’Adhd - se si è borderline, dipendenti, neurodivergenti - attribuendo a questi il senso dei “fallimenti” nelle relazioni o nel lavoro. La complessità dell’atto diagnostico lascia il posto ad un’approssimazione consumistica che colma una domanda sociale di identità.

 

Le versioni social di psicologia e psichiatria sono pervase dall’individualismo, che separa le persone dai contesti. Entro questa cultura, il disturbo perde la sua dimensione socio-politica e diventa conseguenza di un atipico funzionamento neurologico individuale. Se è la diagnosi la causa delle difficoltà, a poco o nulla può servire sviluppare una comprensione del modo in cui si vivono le relazioni. Dare senso ai propri vissuti, contestualizzandoli nelle relazioni con il lavoro, gli amici, i partner, la famiglia, può sembrare inutile. L’etichetta diagnostica ne satura il senso: se si è “fatti così”, non è possibile cambiare.

 

Identificarsi con la diagnosi ha, poi, un vantaggio emozionale: consente di pretendere nei rapporti, acquisendo quote di potere e controllandone i possibili sviluppi; consente di evacuare la paura di vivere l’imprevedibilità delle relazioni, di aprirsi allo scambio, al gioco. Quali cambiamenti culturali giustificano tale desiderio di identità e controllo?

 

Psicoanalisti (Carli, Paniccia) e sociologi (Williams, Srnicek) segnalano che a partire dagli anni 2000 il trionfo del neoliberismo ha organizzato un modo diverso di stare in relazione che scinde il personale dal politico, esaltando una libertà perseguibile solo individualmente. Il fallimento dei movimenti di sinistra nel costruire un progetto alternativo all’ideologia neoliberista ha determinato un diffuso senso di sfiducia verso azioni collettive e prodotti della partecipazione. Le istituzioni che organizzano la convivenza - sindacati, partiti, chiese, scuole - hanno perso potere sociale, non riuscendo più a dare senso al rapporto tra cittadini e Stato, generando sfiducia verso le istituzioni, senso di frammentazione, diffidenza; si convive con la paura dell’altro, nemico per la propria affermazione.

 

Entro questo senso di isolamento e impotenza, la diagnosi sembra apparire attraente per una fascia di popolazione di giovani che, orfani di appartenenze, non ne colgono le criticità. Sembra, poi, rimossa una parte interessante della storia della sinistra italiana: negli anni 60 il movimento antipsichiatrico, legato alle contestazioni studentesche e operaie di sinistra, criticava la separazione tra sofferenza individuale e le contraddizioni sociali; affermava che non fosse il funzionamento neurologico a determinare la sofferenza e che il contesto politico-sociale dovesse essere al centro della malattia e della riabilitazione della persona. Sostenere la pensabilità del rapporto tra individuo e contesto apre a scenari di coinvolgimento, imprevedibilità e scambio. Sostenere la scissione tra questi produce prevedibilità, dogma, controllo e solitudine.

 

*Psicologa e psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico; si occupa di casting per il cinema, ricerca e formazione