Il garante credeva di poter regnare sul M5S, senza governarlo. Ma ora si vede messo alla porta da Conte

O con il garante o con il presidente. Chi sta con Beppe Grillo non può stare con Giuseppe Conte. O con l’uno o con l’altro. È dunque arrivato il momento della scelta finale per gli iscritti al Movimento 5 Stelle, quelli che fino a qualche anno fa – sembra un secolo – chiamavamo semplicemente «grillini». E c’è qualcosa di surreale nelle mosse preparatorie del duello finale, con il comico che fa l’avvocato minacciando di fare valere in tribunale i suoi poteri sul simbolo, mentre l’avvocato fa il comico chiamando con trasparente sarcasmo «sopraelevato» – come un terrazzo o un passaggio pedonale – il fondatore che si firmava «L’Elevato». E anche se è difficile azzardare come andrà a finire – se davvero ci sarà una scissione e chi si scinderà dall’altro – questo finale avvelenato seppellisce l’ambizioso esperimento di Beppe Grillo, che davvero riteneva possibile regnare su un partito senza governarlo.

 

Il controllo distaccato di Grillo e l'ascesa di Conte
Risparmiarsi le cento grane quotidiane della gestione del potere e della ricerca del consenso sorvegliando la sua creatura dall’alto, dettando ogni tanto qualche comandamento e riservandosi il potere delle decisioni finali, delle sentenze senza appello, come supremo giudice della sua monade politica. Con il titolo di garante, democratico ma monocratico. Per 17 anni, fin dai giorni del «sacro blog» – così lo chiamavano i veri grillini – Grillo ha sempre lasciato a qualcun altro il compito di guidare la sua macchina a cinque stelle. Prima ci pensava Gianroberto Casaleggio, che del grillismo è stato il visionario ideologo: chiuso nel suo bunker informatico milanese, governava il Movimento con e-mail affilatissime firma te «Lo staff», decidendo le sorti di iscritti, militanti e candidati. Poi, con l’investitura della Rete, è arrivato Luigi Di Maio, incoronato «capo politico» sul pratone di Rimini, ma con poteri circoscritti dallo statuto del 2017 – scritto da lui stesso – alla «gestione ordinaria» del Movimento. Grillo, però, si era riservato il potere di sfiduciarlo, di annullare decisioni e revocare espulsioni, mantenendo la proprietà del simbolo e del nome. Poteri che ha perso quando è venuto il turno di Giuseppe Conte, che da buon avvocato innanzitutto ha riscritto lo statuto. Inserendo una nuova figura – il presidente – «unico titolare e responsabile dell’indirizzo politico del Movimento». E subito dopo, mentre con una mano gli regalava un cachet di 300 mila euro annui per una vaghissima «consulenza», con l’altra gli faceva firmare l’impegno formale a «non sollevare contestazioni sul simbolo». Una volta cancellato il suo potere politico e sterilizzati i suoi diritti di proprietà, al garante è rimasto un solo compito ufficiale, precisato dall’articolo 11: quello di «custode dei Valori Fondamentali», maiuscole incluse, una formula tanto altisonante quanto fumosa. Oggi Grillo s’è reso conto che il suo parere non è più vincolante. E vorrebbe riprendersi il Movimento che ha fondato. Ma è troppo tardi. La politica, impietosa, punisce chi tenta di architettare una democrazia monarchica dove sia possibile regnare senza governare. Perché chi vuole il dolce potere del comando deve accettare anche la dura fatica quotidiana della gestione. Sennò, inevitabilmente, arriva il giorno in cui qualcuno gli presenta il conto.