Il Genny-gate ha messo in luce non solo il precario stato di salute della destra, ma anche come comunicazione e politica coincidano in un’epoca di campagna elettorale permanente.

Tanto tuonò che piovve. E, alla fine, seppur tardivamente, sono arrivate le dimissioni di Gennaro Sangiuliano da ministro della Cultura, sostituito a spron battuto da Alessandro Giuli. Il «Genny-gate» fornisce parecchi spunti di riflessione accanto a quello del precario e malfermo “stato di salute” della tanto ventilata nuova egemonia culturale della destra-destra. E a quello della carenza dalle sue parti di una classe dirigente adeguata, non soltanto a livello locale ma pure, come stanno evidenziando vari casi dentro l’esecutivo, sul piano nazionale. L’affaire Sangiuliano, che ha pure preso la piega assai poco commendevole della commedia all’italiana, può infatti venire letto anche in termini di «questione comunicativa». Nel senso che fino a pochi giorni prima del patatrac una delle principali linee difensive dell’ex ministro consisteva nell’invocazione del famoso-famigerato «errore di comunicazione» – una sorta di formula e paroletta magica utilizzata tipicamente per cercare di sminuire quelle che sono delle responsabilità politiche a tutti gli effetti – mentre l’intera vicenda nel suo complesso appare come una questione comunicazionale. A conferma, una volta di più, di quanto politica e comunicazione coincidano e si sovrappongano nell’epoca della campagna elettorale permanente. 

 

La battaglia mediatica
Tutto l’affaire si è snodato in un crescendo di colpi di scena fra duellanti che hanno puntato a giustificarsi o ad attaccare a suon di dichiarazioni e messaggi rivolti all’opinione pubblica. Come ha voluto Giorgia Meloni difensivista a oltranza in nome della sua consueta e vittimistica sindrome dell’assedio («Non mi faccio buttare fuori un ministro dai giornali di sinistra e da Dagospia»). E come, risultando finora molto accorta, ha fatto Maria Rosaria Boccia, che ha messo in scena quella che è sembrata un’autentica strategia, dai tempi di rilascio delle sue rivelazioni al ritmo incalzante e al crescendo nella dinamica comunicativa di botta e risposta. Con la realizzazione di un sistema di attese e aspettative del «pubblico» e di un vero e proprio climax, all’insegna di tanti episodi salienti e di uno spettro mediatico a 360 gradi.

 

La politica come spettacolo mediatico
La lunghissima intervista al Tg1 di Sangiuliano, con tanto di «confessione in lacrime» – e, vien da dire, un’immagine alquanto lontana da quella mitologia della «maschia virilità» che la destra-destra ha ripreso a sbandierare contro il «wokismo» – piuttosto inopinata perché mai si era vista una grancassa tanto ampia sul servizio pubblico (a proposito di chi continua a negare l’avvento di “TeleMeloni”…). Lo storytelling della sua antagonista su Instagram, assimilabile nello svolgimento a quello di una serie tv, e le tecnologie digitali come gli occhiali smart per la registrazione, i Ray Ban Stories (comunque più da influencer che da spia). Le foto “taroccate” scaricate da vari siti, di cui lei si serviva per accreditarsi e proiettare l’immagine di un’esistenza più “introdotta” di quanto fosse veramente, e le interviste a ripetizione sui media rilasciate prima di sferrare il colpo del ko. Il bombardamento social di meme e la crescita esponenziale dei follower di Boccia. Insomma, la realtà che supera la fantasia (manco fosse stata concepita da qual che showrunner). E, appunto, la comunicazione come prosecuzione della politica con altri mezzi.