Opinioni
26 luglio, 2025L’attrazione di investimenti, l’alienazione di parte del patrimonio, la debolezza di una regia pubblica, disegnano uno sviluppo non equo e povero di servizi: in questo scenario, Milano rappresenta l’estremizzazione di fenomeni di finanziarizzazione immobiliare, gentrificazione e turistificazione che attraversano il Paese
Le recenti inchieste sull’urbanistica milanese portano con sé una riflessione: quale sviluppo urbano vogliamo per il capoluogo lombardo? Un ragionamento analogo vale anche per le altre maggiori città italiane che vivono il paradosso di attrarre sempre più investimenti immobiliari, pur tuttavia espellendo i cittadini che da sempre le abitano. In questo scenario, Milano rappresenta l’estremizzazione di fenomeni di finanziarizzazione immobiliare, gentrificazione e turistificazione che attraversano il Paese.
Negli ultimi anni, pressoché tutti i governi hanno adottato una serie di politiche fiscali per attrarre capitali stranieri che hanno guidato questi processi, a partire dallo sconto sull’aliquota dei fondi d’investimento della cosiddetta White List, passando poi alla flat tax per i milionari, alle agevolazioni per il rientro di manager internazionali (più che dei cervelli), fino al superbonus 110% e ai più recenti incentivi nel campo dell’edilizia. L’insieme di tutte queste misure nazionali, con il crollo dei finanziamenti per l’edilizia residenziale sociale e pubblica, e in generale delle politiche per la casa, ha portato a una esponenziale disparità tra costo della vita e andamento dei salari in tutti i maggiori centri urbani.
A Milano, l’impatto di questi fenomeni ha, da un lato, fortemente migliorato la qualità dei progetti urbani ma, dall’altro, ha sensibilmente contribuito a limitare i servizi alla cittadinanza come parchi, piscine, trasporti, edilizia abbordabile. Le ragioni per cui finanziarizzazione e gentrificazione hanno penetrato la città sono in parte ascrivibili alle politiche fiscali, ma in parte risiedono nelle politiche urbane “espansive” adottate dalle giunte milanesi. Infatti, ciò è avvenuto anche a causa di un potente arretramento della regia pubblica negli episodi di trasformazione urbana che sono progressivamente divenuti opachi e nei quali la captazione della rendita immobiliare è molto diminuita.
In altre parole, Milano per molti anni è stata un grande magnete per gli investimenti immobiliari incentivati non solo dalla tassazione fiscale agevolata, ma anche da politiche urbane che hanno sostanzialmente facilitato l’estrazione di extraprofitti, anche mediante l’alienazione di importanti aree pubbliche e semipubbliche. In generale il dato è che fino a un paio di anni fa la città aveva bassi oneri di urbanizzazione e il mancato incameramento di queste risorse, unito all’aumento dei valori immobiliari (influenzato dalla finanziarizzazione dei beni immobili) non ha permesso di destinare una quota sufficiente di fondi pubblici, ad esempio, per ristrutturare le piscine, migliorare le linee di trasporto metropolitano e di superficie, né produrre nuovi alloggi pubblici o convenzionati. All’alienazione di vaste aree comunali, statali, parastatali e affini, non ha coinciso un’adeguata redistribuzione della rendita immobiliare, e questo è un problema politico.
Eppure, a Milano e in Italia, l’impiego di strumenti urbanistici per la captazione dei profitti è progressivamente diminuito, da un lato per l’assottigliamento della pratica urbanistica su quella edilizia, dall’altro lato per le limitate maglie normative di cui dispone. In altri Paesi europei, e non solo, è possibile definire precisamente, mediante piani attuativi, quali sono i servizi pubblici che il privato finanzierà con il proprio investimento. E tendenzialmente si cerca di non alienare i terreni pubblici. Questi processi, inoltre, sono spesso caratterizzati da percorsi di partecipazione pubblica da parte dei residenti. Il Comune di Amsterdam è addirittura proprietario del 90% delle aree urbane e i privati versano canoni di concessione che consentono alla città di avere un budget comunale tra i più alti d’Europa, in grado di finanziare molte opere pubbliche strategiche, oltre che gli alloggi.
Occorre avviare quanto prima una revisione della normativa urbanistica che consenta innanzitutto ai piani regolatori e attuativi di finanziare progetti per la ristrutturazione e produzione di alloggi a basso costo, tassando le operazioni private. In secondo luogo, bisogna interrompere la privatizzazione di aree e complessi edilizi di origine pubblica. Questo non necessariamente contrasterebbe i legittimi interessi immobiliari, ma limiterebbe l’estremizzazione delle dinamiche speculative immobiliari e garantirebbe l’interesse pubblico che fino ad oggi si è risolto nella “rigenerazione per sé”. Inoltre, sarebbe utile ripensare il ruolo delle partecipate pubbliche che potrebbero diventare una sorta di “braccio operativo” per le politiche dell’abitare e non dei facilitatori delle operazioni immobiliari.
In questa prospettiva, a Milano servirebbe un Piano di governo del territorio che, in primo luogo, metta in sicurezza tutti i grandi comparti e complessi pubblici da una loro possibile vendita e, in secondo luogo, stimoli le partecipate dello Stato a sostenere una rigenerazione urbana capace di produrre alloggi e servizi a basso costo mediante accordi pubblico-privato fondati su concessioni in cui la regia rimane pubblica.
In tal senso, non sarebbe da escludere una revisione degli Accordi di programma già approvati che talvolta non hanno previsto adeguate misure redistributive dell’interesse pubblico, e sarebbe auspicabile anche un dislocamento di tre, quattro grandi funzioni di interesse strategico nell’area metropolitana, per garantire un allentamento della pressione sia dei trasporti sia dell’abitare sul Comune di Milano.
Infine, vi è una grande questione di governance che il centrosinistra in primis, pur avendone avuto la possibilità nell’ambito della riforma Delrio, non ha mai veramente affrontato. I fenomeni globali che attraversano le città oggi devono essere affrontati innanzitutto a livello locale, proprio per la loro essenza variegata. Sicché servirebbe rivedere le potestà amministrative almeno dei Comuni di Milano, Roma e Napoli per consentire ai loro governi metropolitani di promuovere politiche urbanistiche e del lavoro realmente efficaci, abilitando quella regia pubblica in grado di governare le dinamiche di rendita e guidare in modo strategico lo sviluppo delle città.
*Vicepresidente Ordine degli architetti di Milano
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