Cose preziose
L’ossessione dei vincenti ci divora tutti
La narrazione in mano ai miliardari, che ora puntano anche alla vita eterna, logora la società
Fra rivendicazioni della Groenlandia e successo delle ultradestre un po’ ovunque, viene da chiedersi come siamo arrivati fin qui, ovvero dentro una canzone di Francesco De Gregori: era Cercando un altro Egitto, e le strofe in questione erano: «Il terzo reparto celere controlla; / “Non c’è nessun motivo di essere nervosi” / ti dicono agitando i loro sfollagente,/ e io dico “Non può essere vero” / e loro dicono Non è più vero niente”».
Per tentare di rispondere si può partire da due frasi: una è dell’allenatore della Juventus, Thiago Motta, che ha destato scalpore per l’affermazione: «Vincere non è un’ossessione». L’altra è di Elon Musk, quando dichiarò: «Fondare una società è come mangiare vetro fissando l’abisso». Una semplice, l’altra ammaliante nella sua insensatezza (Nietzsche fissava l’abisso, ma il vetro se l’è risparmiato).
Sembra, inoltre, la riproposizione di un’antica opposizione: vent’anni fa, nel 2005, due uomini parlarono agli studenti, Steve Jobs, con il famoso discorso che culminava nella necessità di essere folli e affamati (e ricchi), e David Foster Wallace, con le parole che vennero poi pubblicate sotto il titolo Questa è l’acqua, dove invitava a dedicarsi agli altri e a pensare: «L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito». Dunque, una delle risposte possibili al come siamo arrivati fin qui è l’ossessione della vittoria: senza eccezioni, a parte il povero Thiago Motta che, a modo suo, ha riproposto quel che Eminem, nel 2002, rappava in 8 mile: «And fuck this battle, I don’t wanna win». Diciamo che l’obiettivo è diventato più ambizioso, e si passa dalla sopravvivenza dei super-ricchi in caso di catastrofe nucleare alla possibilità di vivere per sempre, che ossessiona non pochi ultramilionari: con l’upload del cervello, con la crioconservazione, oppure affidando il proprio corpo a un team medico e agli algoritmi, come il Bryan Johnson del documentario Don’t die. O con le reti neurali di Musk.
Non c’è molto di diverso rispetto ai tanti scienziati schiavi dell’hybris raccontati dal mito e dal cinema, e di certo Musk è più convincente del Rotwang di Metropolis di Fritz Lang o del Dottor Stranamore. Eppure è una risposta possibile: siamo arrivati fin qui perché la scena mondiale è stata presa da vincenti che promettono un mondo bellissimo, dove si fanno soldi e dove, persino, si potrebbe non morire. Potendoselo permettere, ovviamente.
Per questo, la cosa preziosa di oggi è Ottimismo crudele di Lauren Berlant, che esce per Timeo nella traduzione di Chiara Reali e Giorgia Demuro. È un testo del 2011, dove la studiosa americana analizza il nostro attaccamento ai sogni destinati a infrangersi, e a quell’idea di “buona vita” (in famiglia, in coppia, sul lavoro, nelle istituzioni) che pure mostra la sua fragilità. Dice molte cose importanti, Berlant, come la necessità di non limitarsi a ragionare sul trauma, ovvero la reazione ad avvenimenti catastrofici, e occuparsi invece della quotidianità in cui le vite vanno in pezzi. Nel 2011 il testo aprì spiragli (uno su tutti, l’Occupy Movement). Nel 2025 vale ancora, e vale moltissimo uno degli ultimi scritti di Berlant, sul blog. Una frase che è un motto: «Ci rifiutiamo di lasciarci logorare». È una risposta, ed è un possibile inizio.