Opinioni
1 ottobre, 2025Da Capitol Hill all’assalto della Cgil, è stata l’estrema destra a spingere la democrazia sull’orlo del baratro
C’è un gioco che la destra americana e quella italiana sembrano aver imparato alla perfezione: gridare al lupo, ma indicando il gregge. In queste settimane, da Washington a Roma, sentiamo ripetere lo stesso ritornello: attenzione, la violenza viene da sinistra, sono i militanti progressisti a minacciare l’ordine pubblico, sono loro a voler incendiare le piazze. È uno schema collaudato: attribuire al nemico ciò che è invece la macchia più visibile della propria storia recente.
Negli Stati Uniti, il fatto politico più eclatante e più grave degli ultimi decenni non è stato organizzato da un gruppo di studenti liberal con la passione per i cortei, ma da un’orda di militanti di estrema destra che il 6 gennaio 2021 hanno assaltato Capitol Hill. Quelle immagini – i vetri infranti, gli uffici devastati, i parlamentari nascosti sotto i banchi – resteranno scolpite nella memoria del mondo libero come la prova che la democrazia americana era stata portata a un passo dal baratro. E chi aveva acceso la miccia? Il presidente in carica, Donald Trump, che prima aveva arringato la folla e poi, non pago, ha concesso la grazia a tutti i condannati per quell’assalto: un’assoluzione politica e morale che suona come una benedizione postuma.
E in Italia? L’episodio più grave di violenza politica organizzata degli ultimi anni non è stato certo orchestrato da collettivi di sinistra, ma da una formazione di destra: Forza Nuova, che nell’ottobre 2021 guidò l’assalto alla sede nazionale della Cgil. Una folla urlante, pugni sulle porte, stanze devastate. Lì non c’erano studenti arrabbiati o sindacalisti esagitati, ma militanti neri che volevano colpire simbolicamente il cuore del mondo del lavoro. Anche in quel caso, il bersaglio era un pezzo della democrazia.
Eppure, oggi, il copione si ripete: la violenza sarebbe sempre “rossa”, sempre attribuibile a un indistinto fronte progressista pronto a insanguinare le strade. È un’operazione di propaganda raffinata nella sua brutalità: ribaltare la realtà per poter poi giustificare nuove campagne di demonizzazione.
Il paradosso è che aizzare i propri militanti contro gli avversari politici non è mai un antidoto alla violenza, ma la sua benzina. Dire «attenzione, i nemici sono violenti» mentre si agita il pugno e si indica il bersaglio equivale ad aprire il cancello dell’arena e liberare i tori.
L’America ce lo ha mostrato con Capitol Hill: quando un leader indica i “traditori” da fermare, c’è sempre qualcuno che prende l’invito alla lettera e imbraccia la clava (del resto, persino alla spettacolare cerimonia funebre per Charlie Kirk Donald Trump non ha esitato a dire «io odio i miei avversari», che non è esattamente un messaggio pacificatore).
L’Italia lo ha confermato con la Cgil: quando si alimenta il mito del nemico interno, c’è sempre chi si sente investito della missione di colpirlo. Giorgia Meloni, che nei suoi comizi denuncia l’odio dei suoi avversari, dovrebbe aver letto le sagge parole di Mario Calabresi – figlio del commissario Luigi, assassinato il 17 maggio 1972 da estremisti di sinistra – il quale le ha ricordato che in Italia c’è stato il terrorismo brigatista ma ci sono state anche le stragi neofasciste, invitandola con eleganza «a fare i conti con il passato e a utilizzare con accortezza le parole». Se la destra davvero volesse fermare la violenza, comincerebbe col guardarsi allo specchio.
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