Opinioni
17 ottobre, 2025Non più solo territori contesi, ma simboli per chi sta riscrivendo la mappa del Medio Oriente
C’è un vento antico che dopo aver soffiato negli ultimi anni tra le colline aride della Cisgiordania, potrebbe ora lambire anche le macerie fumanti di Gaza. Un vento che si ispira a profezie e rivendicazioni bibliche, che mescola religione e politica in un impasto pericoloso e pieno di rischi. In questi giorni, mentre il mondo si interroga sul futuro di Gaza e sul fragile accordo firmato a Sharm el-Sheik sotto l’egida dell’amministrazione Trump, una certa parte dell’opinione pubblica israeliana – quella più radicale e ultraortodossa – comincia a guardare a quei territori non come a luoghi da restituire, ma da conquistare, da integrare, da ebraicizzare.
Lo dice senza mezzi termini Daniella Weiss, attivista e figura di spicco del movimento dei coloni, in un’intervista rilasciata a Jacopo Mocchi, che potete leggere su questo numero a pag. 44. Le sue parole sono una sintesi brutale ma limpida del pensiero che attraversa una parte importante della società israeliana: «Gaza sarà ebraica. I gazawi andranno in altri Paesi. I palestinesi sono un’invenzione moderna. I confini di Israele saranno secondo la Bibbia, dall’Eufrate al Nilo».
Attenzione non è solo folklore estremista, né una posizione marginale confinata alle yeshivot, dove si studia la Torah e il Talmud. È un progetto. Un’ideologia che, in Cisgiordania, ha già preso corpo con impressionante determinazione. Lì negli ultimi dieci anni, l’occupazione è diventata qualcosa di più di una presenza militare: è colonizzazione attiva. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre il 30% del territorio cisgiordano è ormai occupato da insediamenti israeliani. Non si tratta di insediamenti spontanei, ma di un’ urbanistica pianificata e protetta: avamposti che crescono diventando veri e propri quartieri, pastori palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre, agricoltori cacciati dalle colline dove per generazioni hanno coltivato ulivi e datteri. Il tutto avviene sotto lo sguardo – e spesso con la complicità attiva – dell’esercito israeliano. Le immagini, le testimonianze, le denunce delle Ong raccontano lo stesso copione: soldati che scortano bulldozer, che impediscono l’accesso ai pozzi, che respingono le proteste dei contadini palestinesi con lacrimogeni e proiettili di gomma. E a nulla valgono le condanne di molti Paesi occidentali.
Ecco perché, nonostante la devastazione, nonostante il blocco degli aiuti, nonostante le promesse di un “dopoguerra” aperto alla ricostruzione e alla coesistenza, le parole di Daniella Weiss suonano come campanello d’allarme e ci fanno temere che quanto accaduto in Cisgiordania potrebbe diventare un modello da replicare anche a Gaza, magari partendo da piccole parti di territorio «con le prime mille famiglie già pronte a trasferirsi immediatamente e permanentemente nella Striscia di Gaza», come conferma Weiss. L’accordo di pace firmato a Sharm el-Sheik, pomposamente presentato come «storico», viene visto con disprezzo proprio da chi sogna un Israele esteso ben oltre i confini riconosciuti del 1967. Per costoro, i palestinesi non sono interlocutori, ma ostacoli. Da cancellare, da spostare, da far emigrare. È l’eterno ritorno del sogno della «terra senza popolo per un popolo senza terra», aggiornato con droni, missili e zone cuscinetto.
In quest’ottica Cisgiordania e Gaza non sono più solo territori contesi. Sono diventati simboli. Oscuri oggetti del desiderio di chi, in nome di una lettura letterale della Bibbia, sta riscrivendo la mappa del Medio Oriente per costruire la Eretz Israel Hashlema, la Grande Israele biblica.
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