Opinioni
24 ottobre, 2025La nostra inchiesta svela forniture occidentali alla Russia dietro la maschera del “dual use”
In Ucraina c’è una guerra che si combatte in trincea, tra le macerie di città devastate, tra i civili morti o feriti, nel frastuono delle sirene d’allarme. È quella che tutti vediamo ormai ogni giorno in tv e che ci scuote e ci addolora. Ma ne esiste un’altra più subdola, dove non si spara un colpo, eppure si vincono (o si perdono) battaglie cruciali. È la guerra dell’elusione, dei contratti firmati lontano dai riflettori, delle triangolazioni societarie, delle false diciture sulle esportazioni. Una guerra silenziosa che attraversa consigli d’amministrazione, porti e dogane, e che ha un solo obiettivo: aggirare le sanzioni internazionali contro la Russia, alimentando il motore bellico del Cremlino.
È su questo fronte nascosto che si concentra la nostra copertina “Russian Secrets”, una grande inchiesta giornalistica internazionale, condotta per L’Espresso dalla nostra Gloria Riva, assieme al Consorzio Icij e ad altre prestigiose testate europee. Un lavoro corale che solleva il velo su un sistema di aggiramento delle sanzioni ben strutturato, che ha consentito a Mosca di continuare a ricevere tecnologia avanzata, strumenti sofisticati e, in alcuni casi, vere e proprie armi, nonostante gli embarghi imposti dopo l’invasione dell’Ucraina.
I documenti consultati raccontano di come, grazie a un gioco di scatole cinesi societarie, spesso basate a Cipro ma controllate da capitali russi, siano stati movimentati beni strategici di origine occidentale, destinati non all’uso civile, come spesso dichiarato, ma a potenziare le capacità belliche o difensive della Russia. Tecnologie a “doppio uso”, legali sulla carta ma con applicazioni militari tutt’altro che teoriche: sensori, sonar, componenti di droni subacquei, strumenti fondamentali per la costruzione del progetto Harmonie, la rete sottomarina di fibre ottiche e sensori sviluppata da Mosca per monitorare i mari del Nord e neutralizzare la capacità di penetrazione dei sottomarini della Nato. Tra le aziende coinvolte figurano imprese americane, giapponesi, europee. E sì, anche un’eccellenza italiana della metalmeccanica di precisione, che compare nei documenti come fornitrice di materiale sensibile. In molti casi, le aziende interpellate si sono trincerate dietro la giustificazione dell’uso civile. Ma proprio questo “dual use” — che in tempi normali è una zona grigia legale — si è trasformato in un’autostrada verso l’elusione.
Ci troviamo di fronte a un nodo etico prima ancora che politico: in gioco non c’è solo il rispetto di normative internazionali, ma la responsabilità morale delle nostre imprese nel sostenere, anche indirettamente, lo sforzo militare della Russia contro l’Ucraina. Alimentare con i nostri prodotti la macchina bellica del Cremlino vuol dire rendersi complici, anche se a distanza e per vie traverse, dell’invasione e dell’occupazione illecita di un Paese confinante.
La nostra inchiesta si conclude affrontando un altro aspetto di questa invasione, raccontando quello che avviene, silenziosamente, nei territori ucraini occupati. Dove non si combatte con le armi, ma con i libri di testo. Le autorità russe hanno rimosso la lingua ucraina dalle scuole, sostituito insegnanti e introdotto programmi scolastici volti a celebrare la “grandezza” dell’esercito russo. I bambini imparano a sentirsi russi, a pensare come russi, a interiorizzare la narrativa del Cremlino. È la guerra cognitiva, quella che plasma le menti e riscrive le identità.
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