Opinioni
24 ottobre, 2025Articoli correlati
Mafiosi senza esserlo, sono gli aspiranti eredi della manovalanza di Cosa nostra in crisi di identità
Ma cos’è esattamente questa mafia senza mafiosi? Che si fa largo nel mondo a colpi di pistola. Che si dà una postura prima di un’essenza. Che miete vittime nel cuore della movida palermitana. Cosa sono queste falangi di giovani con le barbe da talebani, prese a prestito dai cugini delle paranze dei Quartieri? Che calano come avvoltoi nel centro della città. Che si agghindano il corpo di tatuaggi e il collo di catene d’oro. Che ostentano ricchezza per poi ricoverarsi nei cubicoli di cartongesso dello Zen2. Che doppiano i neomelodici per dire di amore e malavita, a beneficio dei social. Che si raccontano su TikTok, vaneggiando di onore, rispetto e del più abusato dei cliché lessicali, dignità: il contenitore di tutta la subcultura dei “malacarne".
Sembrano manovali di un crimine sbandato più che organizzato. Figli del dio minore di una mafia in piena crisi di identità. Di una Cosa nostra che tra arresti, condanne, miti infranti ed eterni ritorni, fatica a riconnettersi con gli aspiranti eredi del proprio esercito. Che intanto si sono auto-organizzati in enclave apparentemente fuori controllo. Milizie di ferocia bruta, nuove leve di “protopicciotti” che provano a ritagliarsi spazi di autonomia, lucrando di spaccio e mirando al racket delle estorsioni per fare il salto ma pronte, certo, a baciare la pantofola di un nuovo capo. Se e quando arriverà.
Divenuta ormai attenta, memore delle insidie di un collegamento diretto con la strada, la borghesia degli affari, la “mafia mafia” di Palermo, quella che Attilio Bolzoni nel suo “Immortali” (Fuoriscena, 2025) chiama «mafia trasparente, che non amministra potere ma lo crea», sa che quel serbatoio di manodopera e voti è lì, disponibile alla bisogna. Non può esercitare su di esso un controllo stringente come un tempo. Perché ogni contatto espone al rischio di rendersi riconoscibile. Le basta saperlo vivo e disponibile, dentro quel recinto che è lo Zen2. Il quartiere che è da sempre specchio di tutte le contraddizioni cittadine, incluse quelle criminali. Il grande equivoco, come ha sintetizzato nel 2008 Marc Augé (1935-2023) (“Centro senza centro”, Mimesis, 2025, di Paola Nicita, con le foto di Emanuele Lo Cascio) è considerarlo un “nonluogo”. Al contrario «è invece un luogo con un’identità forte e definita…Per chi vi abita, è Palermo il nonluogo».
Per il crimine di quella periferia obbligata in un quadrilatero che ne ha accentuato la separatezza, è il centro il terreno di caccia. All’interno, semmai, la lotta è per il predominio. Fuori è guerra di conquista.
In questo quadro, c’è molto di oscuro nel delitto del giovane barman Paolo Taormina, ucciso a sangue freddo nel pieno della bolgia notturna di sabato 11 ottobre in centro storico. Non regge la storia della rissa, non regge il misero preteso affronto da lavare con il sangue. Sembra invece che l’assassino venuto dallo Zen2, Gaetano Maranzano, avvertisse l’urgenza di dimostrare la propria capacità di uccidere, quasi fosse un passaggio indispensabile. Un atout per scalare posizioni nella piramide rovesciata del suo universo di riferimento.
L’omicidio è da sempre la prova di valore nella mafia. E lo è anche per chi disperatamente si affanna a emularla. Per quella working class criminale che l’ha elevata a feticcio. Che si nutre ormai della metamafia delle fiction che hanno provato a raccontare l’originale. In un gioco di specchi, chi prova a replicare il modello, si ispira ora alla copia, deformandone, se è possibile, il grottesco. Nel sangue.
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