Attualità
23 ottobre, 2025Articoli correlati
Come un brand, il crimine si autorappresenta sul web: fa proselitismo, sterilizza la violenza materiale nella rappresentazione e rende il suo prodotto desiderabile
Hanno sempre avuto un modo tutto loro di “comunicare”, la paura ma anche i cortei in processione accanto ai vescovi, le stragi e allo stesso tempo i pizzini. Le mafie parlano. Lo fanno nel mondo reale come in quello digitale dove sono sbarcate, molto prima di tanti altri, quando hanno intuito che – con le nuove tecnologie – il flusso degli affari si sarebbe mosso anche nel dark web. Oggi però un recentissimo Studio della Fondazione Magna Grecia (presentato all’Onu a due anni dal primo) aggiunge un tassello in più a questo mosaico e racconta di una criminalità organizzata che, ancora una volta anticipando i tempi, è arrivata su TikTok. E lo ha fatto «perché è su TikTok che si sono spostati i giovani», spiega Nicola Gratteri, magistrato antimafia, a capo della Procura di Napoli. «È a loro che le mafie parlano per aumentare il loro consenso in una dimensione ibrida – tra reale e virtuale – ormai impossibile da ignorare». Ne è prova il recente omicidio commesso a Palermo da Gaetano Maranzano, figlio di Vincenzo (condannato a 10 anni per tentato omicidio) che poco dopo aver sparato, sapendo che sarebbe stato arrestato, ha pubblicato su TikTok un video con la sua foto e in sottofondo l’audio di un passaggio della fiction “Il capo dei capi”, in cui Totò Riina sfida il poliziotto che lo sta arrestando. Un segnale che va letto con la logica del marketing che oggi guida le mafie su TikTok, dove «la criminalità organizzata si comporta come un vero e proprio brand e, al pari di un brand, si fa pubblicità», aggiunge Gratteri. Come? Usando i mezzi tipici della piattaforma - musica, video, coreografie, hashtag – spettacolarizza il lato “bello” del prodotto mafia (potere, soldi, lusso, fratellanza) e ne sminuisce la violenza e la portata criminale. Tanto che alla fine la vita mafiosa diventa desiderabile e il boss da imitare. A far luce su questo scenario contribuisce la Ricerca della Fondazione Magna Grecia, curata da Marcello Ravveduto, professore di Digital Public History all’Università di Salerno, la prima in assoluto che analizza il fenomeno mafioso su TikTok - attraverso più di 6mila contenuti. E fa un confronto con la narco-cultura messicana.
«Tutto – spiega Ravveduto – ruota attorno al concetto di “mafiosfera”, ovvero un ecosistema comunicativo parallelo che vive dentro l’informazione online, ma è in grado di capovolgerne i principi». In questo spazio la criminalità organizzata ha acquisito la capacità di suggestionare un pubblico sempre più ampio grazie a un nuovo protagonista: il “mafiofilo”. Prosumer (produttore-consumatore), non per forza coinvolto direttamente in attività illecite, il mafiofilo ha un’affinità emotiva e culturale verso la mafia. È lui che, come un curatore di immagine, la “veste” per esporla in vetrina. E per farlo usa codici visivi e sonori distintivi – musica neomelodica e trap, scene di lusso ostentato, abiti griffati, citazioni di serie di successo – con cui la spoglia di violenza e la trasforma in intrattenimento. In fiction, melodramma, dissolvendone la gravità morale. La mentalità mafiosa finisce con l’essere normalizzata e diventa più familiare al grande pubblico. Più pop. Mentre la natura criminale viene nascosta dietro la performance, divenendo attrattiva per i giovani. Acquistabile con un click: che è consumo in superficie, potere e controllo in profondità.
Gli esperti chiamano questo modo di usare i social mobstering: basta un selfie con posa intimidatoria, una didascalia in dialetto, un riferimento a un boss locale per entrare a far parte del gioco. Un esempio? Nel novembre 2023 a Pianura (Na), in seguito all’arresto di giovani spacciatori, familiari e amici hanno caricato video su TikTok con messaggi di sostegno come «La galera è il riposo del leone» o «Ti aspetto fuori, vita mia», mostrando così fedeltà al clan e disprezzo per le forze dell’ordine. C’è poi chi questa estetica la usa con maggiore maestria. È il caso del mobinfluencer, il volto più raffinato e pericoloso del marketing mafioso. Si legge nello studio: «Si tratta di un personaggio pubblico che cura meticolosamente il suo profilo, enfatizzando gesti di generosità verso la comunità e rimandando un’idea più glamour della vita criminale». Segue una narrativa rassicurante in cui la mafia si presenta come un marchio di identità collettiva, dotata di una personalità quasi umana, riconoscibile e desiderabile. Ne sono dimostrazioni eloquenti Crescenzo Marino, figlio di un boss napoletano, che ha raccolto migliaia di follower mostrando vacanze a Mykonos, Ferrari e champagne. O Tina Rispoli – vedova di camorra e oggi influencer – che ha usato la sua immagine per creare consenso e ottenere legittimazione come notabile locale.
Il fenomeno però non è solo italiano, e lo studio ha il merito di raccontare anche l’evoluzione social dei cartelli messicani del narcotraffico, veri pionieri nella colonizzazione di YouTube prima e TikTok dopo. Con una differenza di fondo rispetto al nostro Paese: la propaganda mafiosa messicana infatti ruota attorno alla figura del ganginfluencer, molto più diretto e spettacolare nell’ostentazione della violenza. Il criminale messicano non cerca approvazione morale, ma dominio simbolico: i suoi video sono affermazioni di potere, scontri virtuali tra bande, provocazioni territoriali e rituali di appartenenza. In Italia le emoji sono metafore di valori – lealtà la catena, forza e coraggio il leone, potere la corona – per i cartelli messicani invece sono codici di affiliazione. La pizza per esempio, usata dopo “ch” (chapizza) indica chiaramente la vicinanza al Cartello di Sinaloa, richiamando la figura di El Chapo Guzmàn. Entrambe le pratiche però condividono la stessa logica: usare i social come arene di consenso e appartenenza, dove l’immaginario criminale diventa un prodotto culturale da consumare, imitare e diffondere. Gli algoritmi poi fanno il resto: amplificano i contenuti più virali, premiano le storie più estreme e annullano la distanza critica dello spettatore.
In un mondo dominato dalla visibilità, anche il mafioso non si nasconde più: si racconta manipolando la verità, si espone e si vende addirittura come icona di potere e libertà. E le mafie non sono più soltanto denaro, trame e violenza, «ma sono sempre più ibride e algoritmiche, si muovono tra server, blockchain, social media e dark web», dice Antonio Nicaso, esperto di fenomeni criminali e docente alla Queen University del Canada. Che fare allora? Nicaso rilancia la lezione di Giovanni Falcone, aggiornata però all’era digitale: «Lui suggeriva di seguire il denaro per comprendere, intercettare e contrastare la criminalità organizzata». Questo Rapporto ci fa capire invece «che bisogna seguire i flussi, leggere sequenze nascoste, interpretare mondi digitali visibili e invisibili». “Follow the Flow”, insomma, potrebbe essere la nuova strategia nel contrasto alle mafie. Un concetto che Nicola Gratteri traduce in azione: «Urge svecchiare i protocolli d’indagine, dotarsi di personale altamente qualificato, omologare la strategia normativa». Ma non basta. Perché le mafie del XXI secolo scrollano veloci sotto le dita dei nostri ragazzi, e la battaglia si vince anche laddove nasce la cultura. «Se le mafie hanno imparato a usare la tecnologia per diffondere fascinazione e consenso, noi dobbiamo usarla per costruire libertà, legalità e fiducia», dice Nino Foti, presidente della Fondazione Magna Grecia. Che si impegna a presidiare il mondo della ricerca.
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