Opinioni
29 ottobre, 2025Centinaia di messaggi da chi è stato ad Auschwitz contraddicono ogni banalizzazione revisionista
Le dichiarazioni della ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, hanno scatenato una tempesta politica e simbolica. In piena crisi, a causa dei conflitti internazionali, abbiamo constatato quanto la memoria e la propaganda rischino di sovrapporsi, così come l’impegno civile con il revisionismo. Ci si chiede dunque se fosse davvero necessario forzare, con tanta leggerezza, una delle poche inviolabili certezze che tengono insieme questo Paese.
Ridurre i viaggi della memoria ad Auschwitz a semplici «gite scolastiche», utili solo a ricordare che «l’antisemitismo riguardava il fascismo», non è una posizione fraintendibile, ma un’interpretazione personale della storia che nessun ministro della Repubblica dovrebbe permettersi.
La reazione della senatrice Liliana Segre è stata immediata, ha parlato di frasi inqualificabili e ha ricordato che «la memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi». Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha rincarato: «Ad Auschwitz non si va in gita, ma per ricordare una tragedia immane». L’opposizione ha chiesto alla premier Giorgia Meloni di prendere le distanze. Mentre le aspettiamo, ho ricevuto centinaia di messaggi da chi ha partecipato al viaggio della memoria. Studenti, docenti, genitori che, anche a distanza di decenni, mi trasmettono i loro ricordi con grande dignità e orgoglio, respingendo la visione della ministra Roccella. Questa rubrica racconta belle storie, oggi è la loro voce che migliora questa polemica .
«Nel nostro “Viaggio per l’Europa, dal buio alla speranza”, con un professore sopravvissuto, ho imparato che la repulsione per il male non mi abbandona», mi hanno scritto. O ancora: «A 16 anni ho visto il cartello Arbeit macht frei, montagne di scarpe, baracche. Quel silenzio mi ha segnato per sempre». «Come si fa a chiamare gita un luogo dove si respira la morte?»
Le testimonianze ricevute contraddicono ogni banalizzazione e rivendicano un’esperienza di responsabilità. Alberto ha confermato che «la dimensione delle complicità all’orrore nazista non si apprende leggendola su un libro di storia. Anche quando non puoi capire, devi conoscere». Federica ha detto che quel viaggio ha orientato la sua vita da adolescente e poi il suo percorso professionale perché non finisce mai lì. Quando rientri «vuoi approfondire, senti che quel giorno qualcosa è cambiato», mi ha spiegato Martina inviandomi una pagina di un quotidiano di venti anni fa che conserva ancora gelosamente: «Partecipai al primo Treno della Memoria nel 2002, organizzato dalla Regione Toscana. Dal momento in cui gli occhi incrociano quelle prospettive e i piedi calpestano quei selciati, nessuno può più ignorare la storia. Raccogliemmo le nostre testimonianze su un giornale locale. Avevamo 18 anni e per tutti fu “il giorno che sconvolse le nostre vite”. Ti mettono davanti all’inimmaginabile, al male organizzato per imparare a riconoscerlo e a contrastarlo nel futuro».
E per chi oggi rappresenta il Paese la domanda doveva essere non a cosa sono servite quelle gite, ma perché continuiamo a farle? Le risposte sarebbero state un unguento per una nazione fin troppo divisa. La promessa mantenuta di non dimenticare mai.
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