Opinioni
12 novembre, 2025Politica insofferente ai controlli. Il referendum è solo il pretesto per dare una regolata ai magistrati
Insofferenza. È il sentimento che muove le reazioni del governo contro la “pretesa invadenza” dei giudici. Un’irritazione che diventa pura avversione quando il controllo di legalità costituisce un argine alla dismisura, allo strapotere, all’arbitrio.
In tempi di propaganda anche lo stop della Corte dei conti al Ponte e perfino le attuali indagini sulla sbrigativa soluzione data allora al delitto di Garlasco vengono usati per puntellare il sì al referendum sulla separazione delle carriere. Che, però, con i casi elevati a pretesto nulla ha a che fare.
L’uso distorto degli argomenti tradisce l’obiettivo reale: la riforma costituzionale che Meloni vuole appuntarsi al petto ha la funzione di dare una lezione ai magistrati. Non è però l’efficienza del sistema a interessare. C’è l’urgenza di un avvertimento ai magistrati più zelanti. Abbassate la testa. Rinunciate a mettere becco sulle decisioni dell’esecutivo. Lasciate perdere il passato che, quando riaffiora, continua a imbarazzare, perché svela sempre intrecci tra poteri diversi. Come per le stragi, che non si prescrivono. E stanno lì a indicare l’angolo cieco della nostra fragile democrazia.
La riforma, solo in apparenza tecnica, è in realtà un messaggio, una forma di intimidazione istituzionale che un potere, appunto insofferente, manda all’altro. Basta con i casi Delmastro. Lasciate perdere Almasri. Niente indagini sui milioni persi nei Cpr d’Albania. Smettetela con la storia dei migranti ostaggio sulla Diciotti. Evitate tutte quelle inchieste sulla corruzione che dal Sud rischiano di risalire a Roma. E finitela pure con i ministri sotto processo. Tanto, lo sapete, il rango condona il pregresso.
Per sostenere la campagna referendaria, sulla quale persino Ignazio La Russa intravede rischi di contraccolpi per la premier, si cercano testimonial. Anche tra i morti. Così Giovanni Falcone viene evocato come sostenitore della separazione delle carriere. Quando invece parlava di distinzione di funzioni e di specializzazione, cioè di investimenti e organizzazione: tutto ciò che il ministro Nordio non ha affrontato. Meglio una riforma-bandiera che sciogliere nodi reali: tempi, organici, carenze strutturali, accesso e filiera di incarichi come canale di influenza politica sulle toghe. E poi le carceri, ridotte a non luoghi del diritto. Niente di tutto ciò è toccato dalla riforma.
Abituato a giocare sulle fasce, Nordio è arrivato anche a propugnare – lo ha fatto per il delitto di Garlasco – una sorta di pietoso oblio sui casi irrisolti, affidando semmai agli storici la ricerca della verità. Strana forma di garantismo intermittente la sua. Se ne infischia di eventuali errori giudiziari da riparare e bolla come accanimento l’indagine retrospettiva. Quando invece una giustizia giusta dovrebbe accertare responsabilità anche retroattive, e, se necessario, tra investigatori e magistrati che non hanno fatto il loro dovere. La storia, però, è più malleabile della giurisdizione. La si piega, la si riscrive, la si alleggerisce. La giurisdizione no: pretende nomi, prove, responsabilità.
La riforma più che separare le carriere mira a separare il potere dalle sue conseguenze. Scava un fossato a protezione del castello di una politica intangibile. Che non risponde più del proprio operato. Ciò che viene presentato come riequilibrio dei poteri è, in realtà, il suo opposto. Mentre regnanti e cortigiani si esibiscono nel ballo in maschera degli slogan.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Divide et impera - cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 14 novembre, è disponibile in edicola e in app



