Opinioni
14 novembre, 2025L’inchiesta su Cuffaro rivela un metodo di governo: il mercimonio costante delle funzioni pubbliche
Né sani né salvi. La corruzione con epicentro sanitario svelata dall’ultima inchiesta siciliana sul ras democristiano Totò Cuffaro offre l’ennesimo spaccato non solo di un’ipotesi di reato, ma di un metodo, di un sistema di potere. Trascende i destini della responsabilità penale. Riguarda prima un singolo, poi un partito, quindi un’intera coalizione, fino a crepare irrimediabilmente l’istituzione.
Il salto di specie della corruzione, da episodica a regola condivisa, deve risiedere nell’incrollabile fede che non esista un altro criterio. Che non ci siano altri mezzi. Se non il mercato di soldi, favori e poltrone, per amministrare la cosa pubblica, soprattutto in sanità. E, per converso, che non ci siano altri metodi, se non partecipare a quel bazar per progredire in carriera, vedersi riconosciuti i propri meriti, veri o presunti, accaparrarsi un appalto.
Di questa prassi, Totò Cuffaro è stato l’emblema. Ed è tornato a esserlo. L’indagine che oggi minaccia di riportarlo agli arresti è copia conforme di vicende vecchie che vent’anni fa, con più di uno spruzzo di mafia, portarono alla condanna interamente scontata. E, successivamente, a una riabilitazione a furor di popolo. Ciò che colpisce non è la sua coazione a ripetere, ma le condizioni ambientali che favoriscono la replica. Come se, invecchiando senza cambiare, Cuffaro, e con lui tutti i suoi – c’è anche il parlamentare di Noi Moderati Saverio Romano – trovassero sempre la stessa Sicilia, lo stesso Paese. Che ne ha atteso il ritorno, per tornare a godere dell’unico balsamo della politica: il compromesso. Non la nobile arte di conciliare gli opposti, ma la disponibilità a derogare a tutto: principi, regole, codice penale.
Per un Cuffaro che fa sé stesso, con i suoi sistemi e le sue clientele, c’è un popolo, anagraficamente trasversale, che lo acclama e corre a ripararsi sotto il suo ombrello, lì dove tutto diventa possibile. Eventuali processi serviranno a stabilire se c’è e a quanto ammonta il crimine. Ma davvero occorre attendere i giudizi per formarsi un’opinione? A marcare cosa sia accettabile, prima ancora che lecito, nella formazione del consenso?
Domanda aperta anche per i comprimari di quel sistema. Renato Schifani, presidente forzista della Regione, non può davvero chiamarsi fuori, quando la Dc di Cuffaro è ancora lì a puntellarlo. Non può ritenersi estranea la Lega di Matteo Salvini e il big del voto Luca Sammartino che con Cuffaro ha stretto un accordo per le Politiche del 2027, benedetto dal sottosegretario Claudio Durigon. E neppure può farlo Giorgia Meloni che ha potuto toccare con mano quanto i suoi – è successo al presidente dell’Ars Gaetano Galvagno – siano inclini all’amichettismo, malattia infantile della malversazione.
Mentre il governo nazionale lavora per irreggimentarli, alcuni pm continuano a occuparsi di come la politica gestisce i nostri soldi. Ma il loro campo d’azione è il reato. Quello dell’opinione pubblica dovrebbe essere il modo in cui viene esercitato il potere. Da presidente della Regione, vent’anni fa, Totò Cuffaro negoziò nel retrobottega di un’attività commerciale, le tariffe del nomenclatore sanitario per la radioterapia oncologica con il privato Michele Aiello. Che era il venditore privilegiato del servizio. Poteva bastare anche solo questo a smascherare la svendita della propria funzione. Ma non è accaduto se dopo vent’anni siamo ancora lì.
La salute è sempre la prima, e unica, grande industria dell’Isola: oltre 10 miliardi di euro di spesa, più della metà dell’intero bilancio regionale. Sforna incarichi, commesse, favori. E bisogni, in vendita. Catene alle quali legare il sottosviluppo. In una terra mai salva. Né sana.
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