Opinioni
21 novembre, 2025Articoli correlati
L’aumento di oltre un terzo ci è costato solo una riclassificazione di voci, ma sarebbe utile sapere di più
A metà ottobre la Nato ha pubblicato i dati sulla spesa militare dei Paesi membri, con stime preliminari per il 2024-25. È utile passarle in rassegna avendo in mente i nuovi impegni assunti da questi Paesi nel vertice Nato del giugno scorso, e, in particolare, quello di aumentare, entro il 2035, la spesa ad almeno il 3,5 per cento del Pil, nella definizione tradizionale Nato, e al 5 per cento, incluse le spese correlate alla difesa e alla sicurezza. Per queste ultime non esiste ancora una chiara definizione, per cui inutile parlarne. Mi concentro invece sulla definizione tradizionale.
Tutti i Paesi Nato avrebbero ora raggiunto l’obiettivo del 2 per cento di spesa fissato nel lontano 2014, dopo l’invasione russa della Crimea. Nel 2024 mancavano all’appello dodici Paesi (tra cui l’Italia), che, magicamente si sono ora portati al 2 per cento. Il balzo è stato particolarmente forte per Belgio, Lussemburgo, Slovenia e Italia, che è passata dall’1,5 per cento al 2. Come? Gli stanziamenti nella legge di bilancio per il 2025 prevedevano un aumento all’1,6 per cento, ma alcune voci che prima non venivano considerate (non meglio identificate se non per il fatto che riguardano la Guardia costiera, la Guardia di Finanza, le spese cyber) sono state riclassificate. Non si sa bene di che si tratti. I dati Nato indicano un forte aumento, per l’Italia e per gli altri Paesi che stavano sotto il 2 per cento, della voce residuale “altro”, il che non aiuta molto. Possiamo forse essere contenti del fatto che aumentare la spesa di oltre un terzo ci sia costato solo una riclassificazione di voci, ma sarebbe utile sapere cosa esattamente ci abbiamo messo dentro. Già perché se, come penso, la spesa per la difesa debba essere presa molto seriamente perché riguarda la nostra sicurezza, arrivare agli obiettivi con riclassificazioni non è molto utile. Magari ci sbagliavamo prima, sottovalutando il valore ai fini della difesa della Guardia di Finanza o della Guardia costiera, ma dovrebbero spiegarci perché.
Sia come sia, la spesa della Nato sta ora al 2,76 per cento del Pil, ma la distribuzione è asimmetrica rispetto alla media: solo nove Paesi stanno sopra la media, mentre ventidue stanno sotto (ventitré inclusa l’Islanda che è parte della Nato ma a cui è consentito di non avere forze armate). La media è alta perché sopra al 2,76 per cento c’è il peso massimo dell’Alleanza, gli Stati Uniti. Gli altri sono tutti Paesi confinanti con la Russia, il che la dice lunga su quale sia il pericolo percepito. Gli Usa spendono il 3,22 per cento del Pil, un valore basso rispetto al passato, anche recente (nel 2014 erano al 3,71 per cento). È comunque un livello ben più alto di quello dei Paesi europei (tranne quelli confinanti con la Russia), il che sembrerebbe giustificare la posizione presa da Trump e dai precedenti presidenti americani: gli europei sono difesi dai soldi del contribuente d’oltre Atlantico. Non si può negare che senza gli Usa saremmo in difficoltà, non fosse altro che per la sproporzione tra l’arsenale nucleare russo e quello di Francia e Regno Unito (gli unici in Europa che abbiano armi nucleari). Ma lo squilibrio è meno evidente considerando che gli Stati Uniti spendono una buona parte del loro bilancio bellico al di fuori dell’Europa (metà dei loro soldati all’estero sono in Giappone e Corea del Sud). E, comunque, derivano importanti vantaggi economici e politici dall’avere una spesa militare così alta. Non è soltanto buon cuore.
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