Opinioni
6 novembre, 2025È la maledizione della preferenza, antico motore delle campagne e strumento principe del clientelismo
Come da copione, le elezioni in Campania sono diventate il teatro di una commedia che si replica puntualmente ogni volta che si vota da quelle parti: appena vengono depositate le liste, spunta l’elenco dei candidati “impresentabili”, o quelli che qualcuno definisce tali. Il figlio di Giggino ’a Purpetta, l’ex forzista convertito all’ultima sigla utile, il primogenito di Mastella (eterno peccatore per l’unico crimine imperdonabile: prendere sempre troppi voti). Scoperte scandalizzate che arrivano puntuali, come se non sapessimo da almeno mezzo secolo che al Sud la campagna elettorale è una pesca a strascico, anzi una gigantesca battuta di caccia: migliaia di candidati che, armati di bigliettino e sorriso, bussano a ogni porta per strappare una promessa – meglio ancora una preferenza.
La Campania non farà eccezione. La sfida tra Roberto Fico ed Edmondo Cirielli non sarà un duello, ma una battaglia campale tra due eserciti: otto liste contro otto liste. Quattrocento candidati per parte, ognuno impegnato nella propria guerra solitaria sotto bandiere spesso indistinguibili. Due Democrazie cristiane e due liste di moderati nel centrodestra; doppio simbolo e doppia lista per Pd e Cinquestelle nel centrosinistra. E se vi sembrano tante, vuol dire che avete rimosso la genialata di Vincenzo De Luca: cinque anni fa ne mise in pista quindici, liberando 750 cercatori di voti che gli regalarono un trionfo bulgaro, appena sotto il 70 per cento.
Una tecnica così brillante che in Sicilia l’altro De Luca – il furbissimo Cateno, sempre un passo avanti nel gioco del trasformismo – due anni dopo è riuscito ad arrivare secondo mettendo insieme un’armata di 630 candidati e nove simboli, da “Terra d’Amuri” a “Orgoglio Siculo”, passando per “Sicilia Vera” e “Basta Mafie”. Idem in Calabria (sei liste contro otto), e sarà difficilissimo trovare differenze in Puglia, dove Michele Emiliano conquistò la riconferma schierando quindici liste, tra cui perle come il Partito Animalista, il Sud Indipendente, e l’indimenticabile “Pensionati Invalidi e Giovani Insieme”. Una fusione generazionale che neanche nelle pubblicità dei telefonini.
È la maledizione del voto di preferenza, antico motore delle campagne nel Mezzogiorno: c’era nella Prima Repubblica, quando a Napoli poteva esordire uno come Alfredo Vito, che nel 1987 portò a casa centomila preferenze. Ma soprattutto resiste oggi, immune a riforme, scandali e buone intenzioni.
Perché a noi sembra normale ciò che normale non è: tra le grandi democrazie occidentali, l’Italia è l’unica ad aver adottato (e mai abbandonato) questo marchingegno che è lo strumento principe del clientelismo. Così come siamo i soli in Europa ad avere presidenti di Regione eletti direttamente dai cittadini. Per trovare sistemi simili bisogna guardare al Brasile, al Messico e all’Argentina: non esattamente i custodi della sobrietà istituzionale. O agli Stati Uniti, dove però i governatori non si eleggono insieme ai Parlamenti locali e quindi non devono arruolare un esercito di cacciatori di preferenze.
Risultato: abbiamo costruito un ibrido unico al mondo. Un pezzo di presidenzialismo all’americana innestato sulla vecchia macchina raccoglivoti della Prima Repubblica, che si alimenta di preferenze e cresce nel sottobosco del voto di scambio. E allora di cosa ci stupiamo se i governatori all’italiana, una volta eletti, devono pagare pegno ai loro portatori di voti e accettarne ricatti e pretese?
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