Opinioni
11 dicembre, 2025Dov’è lo stupore se “Più libri, più liberi” ammette solo chi può pagare uno stand? Editori neri compresi
C'è una certa ipocrisia, non marginale, nell’allestire la fiera romana che dichiara di voler dare voce alla piccola e media editoria e poi rifugiarsi con puntiglio burocratico dietro il regolamento di fronte alle diserzioni di autori e intellettuali che contestano la presenza di un editore di libri di area nazifascista.
È l’ipocrisia di chi brandisce le regole come fossero alibi, non strumento. È quella di chi scambia la neutralità procedurale per una scelta culturale. E di chi concede lo spazio pubblico della Nuvola – struttura di Eur spa, controllata da Mef e Comune di Roma – lasciando stabilire ad altri i criteri di utilizzo. Perché se il principio è che chiunque, purché paghi, può partecipare a una fiera che porta il nome impegnativo di “Più libri più liberi”, allora il gioco è truccato. La possibilità che i piccoli editori — ostinati, spesso sofisticati nelle scelte, ma poveri — riescano ad aderirvi non è compromessa: è esclusa. Ci si dovrebbe preoccupare, prima di altro, della possibilità concreta che interi cataloghi vengano espulsi da una dei principali eventi pubblici sul libro e restino confinati a pochi estimatori, sempre più rari, chiusi in una nicchia che non è una scelta, ma una condanna. Perché quando l’accesso alla visibilità è regolato solo dal portafoglio, non siamo davanti a un problema di pluralismo delle idee, ma a una selezione per censo mascherata da apertura. Bisogna chiarirsi sull’intento culturale di una manifestazione che si propone, almeno a parole, di “aprire le porte a tutti”. Perché, se si assume come unico criterio di selezione l’ordine di arrivo e quello di pagamento, oltre a una generica adesione ai principi costituzionali (come fossero un’opzione), diventa difficile sostenere — senza scivolare nell’arbitrio — l’esclusione preventiva di alcuni marchi. Ovvero di libri ed editori che oggi, grazie al revisionismo culturale governativo godono di una rinnovata vitalità. Leggasi: sponsor e risorse per comprare spazi di legittimazione. Il mercato, da solo, non fa distinzioni morali.
Se vuoi una fiera della piccola editoria, il solo criterio della capacità economica sembra contraddittorio. Se alla tua fiera non vuoi rischiare editori di libri nazifascisti devi avere il coraggio di dichiararne l’esclusione fin dal titolo. Il che peraltro non inficia la loro libertà di pubblicare libri anche aberranti. Perché le idee, anche le più abiette, se restano confinate nella forma del libro, non sono automaticamente propaganda. Lo diventano se brandite, divulgate, pubblicizzate.
Se tutto è ricondotto alla possibilità di conquistarsi una vetrina sulla base dell'obolo, i conti non tornano. E nel gioco truccato c’è spazio per qualcosa di sbrigativamente farisaico. Come ritrarsi da una fiera culturale non per contestarne all’origine l’essenza, ma per la sola presenza di una casa editrice che ora può permetterselo. Il problema è quali regole rendono possibile quella presenza e ne impediscono altre. Una contestazione da fare, va rivolta ai criteri di selezione nel loro insieme: anche a quelli che eventualmente consentono di coprire le spese di partecipazione degli ospiti, di acquistare spazio simbolico, di trasformare una manifestazione culturale in una borsa valori dell’editoria, peraltro con un ticket d’ingresso per i lettori di 10 euro.
La domanda, allora, è forse: di cosa parliamo davvero quando parliamo di piccola editoria? Di una dimensione economica? Di una postura culturale? Di un’idea di rischio, di ricerca, di marginalità necessaria? O semplicemente di chi, per questa volta e forse anche la prossima, riesce a pagare lo spazio? Finché questa ambiguità resta irrisolta, più libri rischia di voler dire soltanto più stand. E più liberi un auspicio. Remoto.
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