Opinioni
16 dicembre, 2025Diffondere online le vite dei figli è violarne il consenso, i minori non possono né decidere né difendersi
Una bambina è su una scala mobile, in un centro commerciale, insieme ai genitori. Un uomo la saluta chiamandola per nome. La madre le chiede se lo conosce, ma la bambina fa segno di no. Da quel momento, ogni persona che incontrano rivela un dettaglio della sua vita: sanno la data del suo compleanno, che il giovedì ha l’allenamento e conoscono lo sport che pratica.
Sono persone diverse, tutte sconosciute, ma hanno informazioni che non dovrebbero possedere. All’inizio i genitori appaiono stupiti, poi si irrigidiscono. La sorpresa diventa preoccupazione e infine qualcosa che somiglia alla vergogna: capiscono che quelle informazioni sono state diffuse da loro stessi attraverso i social.
Il video fa parte della campagna “Pause Before You Post”, realizzata dalla Data Protection Commission Ireland e mostra ciò che accade quando i genitori condividono informazioni minime, all’apparenza innocue, che diventano invece disponibili a chiunque. Un compleanno, un’abitudine, uno sport. La sola combinazione di questi elementi basta a definire un bambino in modo più preciso di quanto si creda. Da anni si parla di sharenting, ma continuiamo a trattarlo come una questione di buon senso, di morale personale, che riguarda l’educazione singola genitoriale, quando è una questione di diritti.
Secondo il Journal of Pediatrics la stima è di trecento foto all’anno in media, e prima dei cinque anni sono state condivise quasi mille foto del bambino: una biografia anticipata non autorizzata. Nel mio lavoro mi occupo da tempo della distorsione dell’immagine e delle sue conseguenze. Negli ultimi mesi ho presentato una denuncia per manipolazione della mia immagine con l’Ia e condivisione senza consenso. Chi subisce questo tipo di violazione comprende all’istante quanto sia fragile qualsiasi forma di esposizione. Non c’è controllo possibile quando un contenuto entra nel circuito digitale e non c’è un limite tecnico che possa garantire che quel contenuto resti dov’è stato pubblicato. E se questo vale per un adulto, vale ancora di più per i minori, che non possono né decidere né difendersi.
Per molto tempo mi sono convinta che selezionare le loro immagini potesse bastare, ma era una bugia. I compromessi, nel digitale, funzionano solo finché non vengono superati da qualcosa che non avevamo previsto. Ho compreso che la domanda decisiva non riguarda come condividere, ma se abbiamo il diritto di farlo. Ho quattro figli, ma tre sono minorenni e ho scelto di non pubblicare più foto in cui sono riconoscibili. Ignorare questi pericoli sarebbe incoerente con tutto ciò che difendo: protezione e consapevolezza. Il mondo è diventato un luogo complesso e sporcato da noi adulti. E soprattutto la verità non è per tutti. I miei figli non l’hanno percepita come una forma di esclusione, anzi: credo che i ragazzi siano molto più pronti di noi a riconoscere il bisogno di protezione e di confini. E poi servirà come buon esempio di misura.
Non posso riservare a Fragolina63 il sorriso puro di mia figlia, ricevendo frustrazione o morbosità. Questa è la mia scelta: cambiare idea non è mai un fallimento, è un atto di coscienza. Perché in alcune battaglie, soprattutto quelle che riguardano i minori, non serve ostinarsi. I bambini sono persone, non sono nostri. Crescere senza un pubblico è un diritto che rischiamo di considerare secondario solo perché la tecnologia ci ha abituati all’idea opposta.
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