Opinioni
5 dicembre, 2025Insofferente ai controlli, il potere riconosce solo il proprio. E diventa un giocatore del risiko bancario
Che la scalata a Mediobanca, e a Generali, finisca nelle aule del tribunale di Milano o si risolva in una partita di potere nel perimetro del capitalismo italiano, consegna alla cronaca due costanti che definiscono il Dna del nostro sistema.
Mostra i tratti di un Paese insofferente ai controlli, prima ancora che alle regole, e di una politica intenta a tenere sempre un piede nella porta del credito. La refrattarietà ai controlli è sentimento maggioritario. Soprattutto quando, con la parola magica “semplificazione”, si invoca la legittimità di procedure più opache che snelle. Sulle quali l’intervento della magistratura è ontologicamente tardivo: registra un’anomalia quando c’è il fondato sospetto che si sia già verificata. È il setaccio ultimo, non anticipa nulla e previene al massimo ulteriori conseguenze.
La bagarre sulla separazione delle carriere fa però del referendum la calamita alla quale attaccare qualsiasi arnese utile a smontare la considerazione pubblica per il potere giudiziario. Rendendo manifesta l’intenzione dell’officina governativa. Non la cosa – la separazione – ma il chi – la giurisdizione – è il bersaglio autentico della campagna. Perché, da “grammatica” basica delle democrazie mature, il controllo è percepito e denunciato come un’intrusione. Indebita. Una manomissione del corretto fluire di vicende. Concepite nel retrobottega dell’establishment e raccontate invece come l’evolversi naturale di eventi, tacendo del modo in cui il loro corso è stato deviato.
La seconda costante è perfino più sistemica: la politica, con il suo corredo di rapporti vischiosi e interessi obliqui, non resiste alla tentazione di ritagliarsi una nicchia di privilegio nel mondo bancario-finanziario per annettere la leva del credito e del risparmio al proprio armamentario. Se il sentiment è l’insofferenza ai controlli, l’ambizione è il controllo sulle banche. Un paradosso perfetto: si rifiuta il controllo che democraticamente limita, si ambisce al controllo che indebitamente potenzia.
Non è un inciampo recente. La tentazione è antica e bipartisan. Ambrosiano, Antonveneta, Bnl, Popolare di Lodi, Capitalia. Sono mappe di interessi oltre che nomi di altrettante vicende che hanno dispiegato l’interesse della politica a orchestrare tracolli annunciati, scalate, fusioni.
Eppure, in un’economia di mercato, dovrebbe esistere un solo arbitro: il mercato. Spetta alla contendibilità del capitale, al rischio imprenditoriale, alla trasparenza regolatoria – non alla militanza salottiera – decretare il successo o il fallimento di un’operazione. Anche la più spericolata. Al Palazzo è certo assegnato un dovere di vigilanza: intervenire quando sono in gioco la fiducia e gli interessi degli italiani. Ma tra vigilare e ingerire, tra proteggere e predisporre condizioni di favore per gli amici, c’è la stessa distanza che passa tra chi fissa le regole di una partita e chi la disputa. Se il vigilante siede al tavolo, diventa un giocatore.
La domanda non è dunque come andranno i processi, ma come vanno gli anticorpi. Nella smania di separare le carriere, perché la politica non prova a separare sé stessa dagli interessi di cordate, gruppi, consorterie? Perché non scrive un referendum quotidiano su un solo quesito: vuoi un capitalismo libero dalla politica come leva del credito? Non richiede urne, ma coerenza. Il più raro dei talenti italiani.
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