Siamo stati abituati a pensare agli Stati Uniti – seppur con qualche eccesso retorico – come alla democrazia liberale per antonomasia. Mentre oggi, fra giri di vite sulla libertà di espressione, licenziamenti di massa ed espulsioni, ce li ritroviamo incamminati sulla strada di un’amministrazione autoritaria, più in stile Erdoğan che “Teddy” Roosevelt o Eisenhower.
Una fotografia nitida di questa involuzione ci arriva dall’ormai famigerato Chatgate che, nonostante la Casa Bianca si sia massicciamente adoperata per minimizzarlo, ha tenuto banco proprio grazie ad alcune delle testate ed espressioni più serie di quel giornalismo definito sprezzantemente mainstream che il trumpismo vorrebbe spegnere, e considera (ossessivamente e impropriamente) alla stregua di un nemico giurato. A partire, naturalmente, da Jeffrey Goldberg, il direttore del periodico The Atlantic, inserito per sbaglio nella chat di Signal “Gruppo ristretto sugli Houthi”, dove vari papaveri del trumpismo tronfio e trionfante – dal vicepresidente J.D. Vance al consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, fino a un tal “MAR” (probabilmente l’acronimo del segretario di Stato Marco Antonio Rubio) – commentavano i piani di attacco contro il movimento islamista yemenita descritti dal capo del Pentagono Pete Hegseth. E che, dopo essersi assicurato di non mettere in pericolo la posizione dei militari coinvolti nei raid, con una scelta giornalisticamente ineccepibile (e coraggiosa, data l’aria dei tempi), Goldberg ha pubblicato sul sito della rivista. Dopo che per giorni la portavoce presidenziale Karoline Leavitt ha stentoreamente negato che quelle fuoriuscite fossero informazioni classificate, per giustificare la topica Waltz ha dichiarato in maniera sprezzante: «Non ho visto quello “sfigato”» (riferito a Goldberg).
Ecco, uno degli aspetti – tristemente ed esemplarmente – più interessanti di questa brutta vicenda riguarda proprio le modalità di esprimersi di chi sta al comando di quella che rimane tuttora la principale potenza planetaria, il cui vicepresidente definisce l’Europa come una «parassita», rivelando molto chiaramente – a dispetto delle destre nostrane che lo negano – l’obiettivo di archiviare la solidarietà atlantica che ha animato per decenni lo scenario post Seconda guerra mondiale. E, difatti, siamo giunti a una scellerata guerra (commerciale) all’Europa a colpi di dazi da parte di chi, in tutta evidenza, ha smesso di essere un alleato.
Le chat rivelate da The Atlantic sono costellate di espressioni indegne, battutine adolescenziali, emoticon: a leggerle, i decisori del governo americano appaiono come una “broligarchia” di maschi bianchi con una sottocultura di complicità da college e caserma. Lontanissimi dal possedere il senso delle istituzioni che sarebbe necessario, e intenti unicamente a guardare al mondo come a un complesso di pedine di Risiko da spartirsi con il “compare di merende” Putin, o da mangiarsi direttamente imponendo una forma di neocolonialismo minerario (nel caso della martoriata Ucraina e della Groenlandia). In buona sostanza, dei veri avversari della visione illuministica e democratica che, da novelli Joker, vogliono seppellire sotto le sguaiate risate del Carnevale populista. Non ci sono adulti nello Studio Ovale, ma un manipolo di inquietanti narcisisti aggressivi.