Se Roma viene percepita come una semplice appendice del trumpismo, il rischio è l’isolamento. Perché per giocare un ruolo da protagonista non basta scegliere bene le alleanze. Bisogna anche essere nei luoghi dove maturano le decisioni

L'arduo slalom di Giorgia Meloni tra Europa e Stati Uniti

Giorgia Meloni ha presentato come un successo personale e «un motivo d’orgoglio» il vertice a Palazzo Chigi tra Ursula von der Leyen e il vicepresidente americano JD Vance. A ragione. Quell’incontro è certamente un segnale della sua capacità di coltivare un dialogo costante con Washington, e non è un traguardo secondario: pochi leader europei possono vantare un rapporto così diretto con esponenti di entrambe le sponde politiche americane.

 

Tuttavia, nella sostanza, l’incontro ha avuto il sapore di un passaggio interlocutorio, privo della solennità che avrebbe garantito un confronto diretto tra Donald Trump e la presidente della Commissione europea. Peraltro, von der Leyen non ha mancato di ricordare che quello con Vance non era un primo incontro: si erano già visti a Parigi. Il tentativo di Meloni di accreditarsi come mediatrice tra Usa ed Europa appare dunque più simbolico che effettivo.

 

Nel gioco delle immagini – che in politica estera contano quanto e più delle parole – è stato difficile non notare l’assenza della premier italiana sul treno per Kiev che ha visto Macron e Merz in prima fila. Un convoglio altamente simbolico, come quello che anni fa ospitò Mario Draghi accanto a Scholz e Macron. Stavolta, al posto dell’Italia, è salito il neoeletto premier britannico Keir Starmer, a testimonianza del peso delle assenze, specie se reiterate. L’Italia, almeno visivamente, è apparsa fuori dal cuore pulsante della solidarietà occidentale.

 

Meloni ha motivato la sua mancata partecipazione all’incontro parigino dei “volenterosi” – i Paesi pronti a sostenere Kiev anche militarmente – con il rifiuto di inviare truppe italiane in Ucraina. Eppure, come si è visto nei giorni successivi, partecipare a quella riunione non significava impegnarsi militarmente, ma contribuire alla definizione delle strategie comuni. Un’occasione persa, che rivela una più generale esitazione di Meloni a entrare pienamente nei meccanismi decisionali europei.

 

La sua riluttanza sembra avere una matrice precisa: il timore che un impegno troppo visibile in ambito Ue, specie sul fronte ucraino, possa metterla in contrasto con Donald Trump. Meloni intravede nella linea dei “volenterosi” più un rischio politico che un’opportunità strategica, e ciò la porta a una posizione defilata, nella speranza di non scontentare nessuno, ma al prezzo di contare meno.

 

La premier italiana è probabilmente, tra i leader europei, quella con il miglior rapporto personale con il presidente americano. La sintonia politica è evidente: conservatorismo identitario, critica all’establishment europeo, approccio sovranista. Ma è proprio questo il punto. Il legame privilegiato con Trump può offrire vantaggi tattici nei rapporti bilaterali. Tuttavia, il vero banco di prova per Meloni non è l’accoglienza a Washington, puntualmente calorosa, bensì la sua capacità di far contare l’Italia nei processi decisionali dell’Unione europea. Se Roma viene percepita come una semplice appendice del trumpismo in Europa, il rischio è l’isolamento. Una trappola che la storia ha già riservato ad altri leader italiani.

 

Meloni si muove dunque in uno spazio ristretto, tra il desiderio di non compromettere i rapporti con Bruxelles e la volontà di mantenere un canale privilegiato con Washington. Ma per giocare un ruolo di protagonista non basta scegliere bene le alleanze: occorre anche esserci, nei luoghi dove le decisioni maturano. E soprattutto non arrivarci in ritardo.

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