Cara Destra, se ti intesti Paolo Borsellino prendilo tutto

Lo stesso governo che declassa per motivi ideologici il teatro della Toscana diretto da Stefano Massini si compiace, con ragioni analoghe e di segno opposto, delle scelte delle tracce della maturità su Paolo Borsellino e Pier Paolo Pasolini. Lo scopo è quello di annettersi due figure da esibire nel costruendo Pantheon immaginario e immaginato di questa destra, assai a corto di figure simbolo, non fosse altro che per ragioni di opportunità e di calcolo. 

 

Il vissuto dei Fratelli è giovane, il filo che li lega al passato, imbarazzante e, traghettati e cambia casacche a parte, non c’è molto da recuperare, pena il ricorrente sospetto di pescare nell’archivio della nostalgia. Con esiti dubbi, pericolosi o contraddittori. Come quando per celebrare le vittime del clima d’odio degli anni di piombo, a ogni ricorrenza possibile, ci si presenta con le braccia tese e le camicie nere. O quando si pretende, come fa il ministro Giuseppe Valditara, di tenere insieme nei programmi scolastici più latino, più Bibbia, più intelligenza artificiale, le poesie a memoria e il corsivo contro l’odiato stampatello. O quando si rivendica di ascoltare Francesco Guccini e di provare una certa fascinazione per il Che. Magari mentre si flirta con Donald Trump e Bibi Netanyahu

 

Meritorio che, nonostante una certa confusione, si cerchi di allargare lo sguardo. A patto però di non compiere operazioni spericolate di cooptazione postuma, estrapolando frasi dal contesto per decretare la coincidenza dell’oggi all’orma della storia. Perché il calco rivendica una corrispondenza che si dimostra falsa alla prova delle miserie quotidiane. La scelta del magistrato Borsellino poggia su un’adesione studentesca alla Federazione universitaria del Fronte della gioventù. Quella dello scrittore, poeta e regista, Pasolini, par di capire, sul suo essere eretico anche rispetto alle ipocrisie di certa sinistra. Quel suo sottrarsi ai dogmi, ai diktat, alle mode e alle convenienze borghesi che contagiavano anche l’establishment comunista.  

 

D’accordo, l’operazione condotta attraverso le tracce dei temi è poco più di un espediente ingenuo. Arriva buon ultimo dopo le sortite di Giorgia Meloni, le esternazioni di Gennaro Sangiuliano, le contorsioni di Alessandro Giuli. Testimonia però una certa idea, diciamo così, di egemonia culturale che abita le stanze di questa destra. Non si discute, non si argomenta, si coopta o si mette all’indice, con la disinvolta, esibita, tracotante apposizione di un tratto di penna, per legittimare tutto e il suo contrario. 

 

Paolo Borsellino, da adolescente ebbe simpatie monarchiche, da universitario fu effettivamente nel Fuan e da giovane conobbe e coltivò fino al giorno della morte un’autentica amicizia con Giuseppe, Pippo, Tricoli, professore universitario e parlamentare regionale missino, fiero antimafioso, pensatore lontano dalla paccottiglia avanguardista esibita all’emporio reducista. 

 

Con Tricoli, Borsellino partecipò a un dibattito nel 1990 a Siracusa alla Festa nazionale del Fronte della Gioventù. Al tavolo c’erano anche Adolfo Urso, Gianni Alemanno, Fabio Granata e Angelo Sicali. Lì disse che sarebbe morto sereno sapendo che c’erano dei giovani come quelli disposti a battersi per quello in cui credevano. Un tributo di fiducia nell’impegno delle generazioni future. Non l’adesione a un programma. Rispetto ai partiti, del resto, ripeteva la necessità che facessero pulizia al loro interno prima ancora e a prescindere dall’arrivo della magistratura. 

 

Ecco, se davvero si vuol far proprio il pensiero di Borsellino, si potrebbe cominciare da lì. E smetterla con la difesa d’ufficio dei presentissimi impresentabili che, anche con rango di ministro, dimostrano ogni giorno quanto il potere sia lontano dall’immaginazione.

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