Gli elettori del Carroccio sono attratti da Trump, Putin e soci. Per loro la forza conta più del compromesso

La voglia antica dei leghisti per il capobranco mina la democrazia

In un Paese dove la politica somiglia sempre più a un talk show, i sondaggi, come oracoli svogliati, ci regalano scorci inquietanti del nostro subconscio elettorale. L’ultima rivelazione arriva da Demos: tra gli elettori dei maggiori partiti italiani, sono i leghisti quelli che più di tutti tifano per Donald Trump (52 per cento), per Vladimir Putin (40 per cento) e per Benjamin Netanyahu (36 per cento).

 

Ora, non serve Freud per capire che l’innamoramento per l’uomo forte ha radici antiche. L’elettore leghista, abituato a un mondo semplice fatto di padroni e sudditi, di confini invalicabili e leggi granitiche, ritrova in questi leader il mito virile del capobranco. Uno che non chiede il permesso, che mena le mani (o le bombe), che parla alla pancia. Il prototipo perfetto per chi vede nel compromesso un tradimento e nella diplomazia una debolezza.

 

Trump, col suo ciuffo da gallo arruffato e il dito perennemente puntato contro “gli altri” – siano cinesi, messicani o liberal – è l’incarnazione del maschio alfa di destra: rozzo, impunito, miliardario e incazzato. Il fatto che la sua presidenza sia un circo tragicomico, che sta facendo traballare le economie dell’Occidente, poco importa: l’elettore leghista non cerca un amministratore, ma un gladiatore. Putin, invece, è l’uomo delle nevi e dei silenzi. Freddo come un polonio nel tè, autore di guerre che l’Occidente non ha mai davvero capito né voluto fermare. Per l’elettore leghista, abituato a vedere il mondo come una continua invasione (di migranti, di euroburocrati, di gender, persino di zanzare globaliste), Putin è il doganiere con le chiavi del destino. Se bombarda l’Ucraina, lo fa per difendere la sua patria. Se reprime, è per mettere ordine. Se mente, è per applicare la sua strategia. Il cinismo viene scambiato per lucidità. Il disprezzo per l’Occidente, per autenticità. Netanyahu è un caso a parte, ma non troppo. È il Trump col cervello e il Putin col sostegno della Casa Bianca. Ha fatto del “nemico permanente” un collante identitario. Per lui, ogni tregua è una pausa per pianificare l’attacco successivo. Il sangue dei bambini di Gaza evidentemente non impressiona i seguaci di Salvini.

 

Ma la domanda è: perché proprio i leghisti? Perché non i meloniani, che per la loro storia dovrebbero subire il fascino dell’uomo forte? O i forzisti, che per trent’anni si sono affidati a un capo indiscutibile? La risposta è in una parola: identità. La Lega, più di tutti, ha costruito sé stessa come un partito tribale. Prima il Nord, poi l’Italia (ma solo quella che "lavora"), sempre contro qualcuno. E in questa narrativa barricadera, l’uomo forte è l’eroe perfetto. Non si piega, non dialoga, non si scusa. Esattamente ciò che l’elettore leghista vorrebbe dal suo leader ideale.

 

Naturalmente, questo afflato virilista ha anche una componente nostalgica: ricorda un tempo in cui l’autorità non andava giustificata, ma solo obbedita. Quando le divise rassicuravano, i confini proteggevano e gli “altri” restavano fuori. È un sogno, certo. Ma è più facile sognare con Trump, Putin e Netanyahu che con Keir Starmer, Friedrich Merz o Emmanuel Macron. E allora eccoli lì, gli elettori leghisti, aggrappati a un’idea di forza che ha poco a che vedere con la democrazia e molto con il comando. Non importa se quegli uomini forti trascinano i loro Paesi nel baratro: finché sbraitano, sparano e si impongono, sono gli eroi che una parte del Paese – la loro – continua a desiderare.

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