Si vota per cinque referendum, domenica e lunedì. Eppure mai come stavolta il dibattito tra favorevoli e contrari – relegato tra i servizi minori su quasi tutte le tv – è stato oscurato da quello sull’astensione, come diritto equiparabile a quello del voto, con punte di eleganza istituzionale che rasentano il surrealismo. Giorgia Meloni, per esempio, ha annunciato che andrà al seggio, ma non ritirerà le schede.
La forma salva la sostanza, il rito sostituisce il contenuto. Ci si mette in fila, si saluta il presidente del seggio, si mostra il documento, e poi, con dignitosa discrezione, si rinuncia a votare. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, che di teatralità se ne intende, ha detto che andrà a votare, ma dopo aver fatto propaganda per l’astensione. Un voto contro il voto, potremmo dire. Una posizione che richiede una certa abilità filosofica, un gusto per il paradosso: non tutti possono permettersi di essere, contemporaneamente, dentro e fuori. Eppure lui ci riesce. Matteo Salvini, più pragmatico, ha deciso di restare a casa. Non si alza, non si veste, non fa finta. Astensione piena, come quella che si fa con le giornate troppo calde o troppo fredde: non è il momento giusto per prendere decisioni.
Ma attenzione: questa danza dell’astensione non è una trovata dell’ultima ora. Ha radici nobili, o almeno autorevoli. Nel tempo si sono pronunciati per il diritto all’astensione anche presidenti della Repubblica, leader della sinistra e segretari della Cgil. Ricordandoci che anche non votare è una scelta. Che se la Costituzione ha previsto il quorum è perché riconosce il diritto di astenersi (a differenza delle elezioni, dove i seggi vengono assegnati anche se va a votare meno della metà degli elettori, come è successo alle ultime Europee).
In effetti, il referendum abrogativo italiano ha un difetto strutturale: se non si raggiunge il quorum, non conta nulla. E quindi, invece di dire «voto No», si dice «non voto, così il No vale doppio». È un gioco a somma zero, dove l’unico modo per vincere è impedire agli altri di giocare. Uno strano modo di far funzionare la democrazia, che da strumento di partecipazione diventa test della pazienza.
E così, ogni volta che un comitato raccoglie abbastanza firme per proporre un referendum, parte la grande manovra per farlo fallire. I partiti si dividono tra chi si astiene in modo nobile, chi in modo tattico, e chi si dimentica persino di annunciarlo. E l’elettore medio, che magari una sua opinione ce l’avrebbe, viene travolto dal messaggio implicito: meglio non pensarci, non serve a nulla.
Siamo l’unico Paese al mondo dove il vero dibattito referendario non è sui contenuti, ma sulla strategia per far fallire il referendum stesso. A questo punto, una domanda si impone: ha ancora senso tutto questo? Possiamo continuare a giocare al referendum solo per poi fare in modo che fallisca sistematicamente? O non sarebbe più dignitoso riformare questo istituto della democrazia repubblicana una volta per tutte?
Forse è arrivato il momento di chiederci se davvero ha senso mantenere così com’è un istituto che si presta così bene a essere disinnescato. Forse, come suggeriscono alcuni autorevoli costituzionalisti meno inclini alla rassegnazione, bisognerebbe abolire il quorum. Chi va a votare decide, chi non va si adegua: semplice, onesto, chiaro.
Perché la democrazia, quando diventa solo strategia, perde la sua forza. E il referendum, che dovrebbe essere il momento in cui il popolo parla, non può diventare l’ennesima occasione per tacere con metodo.