C'erano una volta i V-Day. Le piazze infuocate, i cori contro “i politici di professione”, gli assegni restituiti come trofei di una rivoluzione etica. C’erano Grillo e Casaleggio, che con voce reboante giuravano guerra al finanziamento pubblico, alla lottizzazione della Rai, al terzo mandato. C’era un Movimento che prometteva di essere diverso. Oggi, c’è un partito come tutti gli altri.
La notizia è ufficiale: è caduto anche l’ultimo totem. Il terzo mandato non è più un’eresia. La base grillina – o almeno quel che ne resta – ha votato online per modificare il codice etico. I big del Movimento possono ricandidarsi. Ancora. E ancora. E ancora. Taverna, Fico, Crimi, Bonafede: la vecchia guardia torna in campo. C’è chi passerà da un’istituzione all’altra, come Fico verso la Regione Campania, e chi si concederà una pausa di cinque anni prima di rientrare. O, più semplicemente, basterà il via libera del leader. Cioè di Giuseppe Conte.
Già, Conte. Il camaleontico “avvocato del popolo” che ha trasformato la ribellione in routine, il no a tutto in un nì strategico, il verbo di Grillo in pragmatismo da comitato centrale. Da quando è salito al comando, uno dopo l’altro sono caduti tutti i pilastri fondativi del Movimento. Prima il finanziamento pubblico, una volta “sterco del diavolo” e oggi riabilitato come linfa vitale della macchina partitica. Poi la lottizzazione della Rai, con i Cinque Stelle improvvisamente entusiasti di sedersi al tavolo delle spartizioni, conquistando direzioni, conduzioni, visibilità. E adesso, il terzo mandato. Quella barriera etica che doveva impedire la degenerazione in casta, oggi abbattuta con un clic.
Chi ricorda le prediche integraliste contro il Sistema, le scomuniche a ogni compromesso, stenta a riconoscere i protagonisti di questa parabola. Una volta profeti della purezza, oggi professionisti della permanenza. Il Movimento che predicava il limite si ritrova a reinventarsi illimitato. «Mai più di due mandati!» urlavano nei comizi. Oggi il mantra è diventato “mai dire mai”.
Eppure, nessuno sembra più scandalizzarsi. La normalizzazione è completa. I Cinque Stelle non fanno più paura, non scuotono, non sorprendono. Sono diventati prevedibili. In politica, forse è una forma di maturità. Ma per un partito nato per spaccare il sistema, è una resa.
Quella che era nata come un’onda antisistema, oggi si è sistemata. I “portavoce” sono diventati leader navigati, gli attivisti si sono trasformati in funzionari, e il fuoco sacro della partecipazione diretta è stato sostituito da votazioni pilotate. Dove prima c’era indignazione, oggi c’è l’amministrazione. Dove c’erano barricate, ora ci sono accomodamenti. Anche il linguaggio si è fatto più felpato. Le invettive sono sparite, sostituite da comunicati ponderati. L’epopea delle restituzioni è ormai un ricordo sbiadito: pochi ormai controllano se i bonifici arrivano davvero, e ancora meno sembrano curarsene. L’identità rivoluzionaria è stata accantonata con disinvoltura, come una felpa con il logo sbagliato.
Non è solo una trasformazione. È un ribaltamento, una rivoluzione al contrario. Conte ha preso un’Armata Brancaleone di idealisti incoscienti e l’ha convertita in un partito strutturato, disciplinato, pronto a tutto pur di restare nella partita. E se il prezzo da pagare è la coerenza, pazienza. L’importante è restare in corsa. Magari per Palazzo Chigi. Di nuovo, perché no?