Opinioni
21 luglio, 2025Per le regionali, il centrosinistra archivia le consultazioni aperte. Tradendo i suoi stessi valori
Chissà se è vero che De Luca si è accordato a tavola con Conte, spianando la strada a Fico come suo successore. E chissà se è vero che Schlein ha deciso di scaricare il governatore toscano Giani, lasciando però che siano gli alleati a pugnalarlo. Ma vi ricordate le primarie? Vi ricordate i dibattiti tra i candidati, le file ai gazebo, l’esultanza del vincitore che chiudeva quella che veniva giustamente definita una festa della democrazia? Le primarie, insomma: quelle vere, quelle aperte, quelle che – con tutti i loro difetti, le loro ombre, i loro eccessi – avevano il pregio di far sentire il partito un organismo vivo. Popolare. Partecipato. Un partito di centrosinistra.
Ebbene, sono sparite. Cancellate. Con la stessa fretta con cui si toglie un ingombro da un corridoio. Eppure, proprio grazie alle primarie Elly Schlein è diventata segretaria del partito. E non una segretaria qualsiasi: la prima donna, la prima eletta fuori dai recinti delle correnti, l’outsider che vince contro l’establishment. Tutto questo grazie a un metodo che oggi lei stessa rimuove, come se fosse una colpa. O peggio, un fastidio.
Ma cos’è cambiato nel frattempo? Il metodo o la persona? Forse entrambi. Perché c’è una tentazione antica nel potere, anche in quello più giovane: la tentazione del controllo. Le primarie sono incerte, rischiose, imprevedibili. Le trattative a tavolino no. Si possono gestire. Si possono chiudere, come una porta. Anche se dietro restano fuori voci, energie, consensi, passioni.
Il M5s, si dirà, non ama le primarie. Organizzava le “parlamentarie” online, con i risultati sfornati dal computer di Casaleggio. Ma le primarie sono un’altra cosa, che a Conte per il momento non piace. E allora? Il Pd nasce con un’altra cultura, ha un’altra identità. Il compromesso non può essere sempre e soltanto un arretramento. Il paradosso è evidente: il partito che ha fatto della partecipazione la sua bandiera, ora si rifugia nell’opacità delle stanze chiuse. Le primarie non erano la perfezione democratica. Ma erano l’antidoto a un vizio antico della politica italiana: la cooptazione. Era il modo per dare forma alla leadership attraverso il consenso, non la designazione. Era un principio, prima ancora che una procedura. E ora?
Ora il Pd si allinea a un modello di politica oligarchica, dove si decide senza consultare. Dove si temono i cittadini. Dove la volontà collettiva viene sostituita dall’accordo tra dirigenti. E Schlein, che era la promessa di un cambiamento, appare sempre più intrappolata in un sistema che ha promesso di superare. Si è adattata al partito che voleva cambiare. È diventata parte di quella stessa liturgia.
Ma la politica non perdona chi rinnega se stesso. E la memoria del popolo democratico è più lunga di quanto creda chi lo guida. Le primarie non erano solo una scelta tecnica: erano un simbolo. Erano il segnale che la sinistra esiste ancora come idea di comunità. La loro scomparsa è un segnale opposto. Così oggi si trattano nomi e poltrone come se fossero scacchi da muovere a Roma per partite regionali. Ma la vera partita è altrove: è nel rapporto tra i cittadini e i partiti. È lì che si sta perdendo. E quando si perde quel rapporto, non basta una candidatura unitaria per vincere. Serve una fiducia collettiva. Serve una voce che dica: siete voi a decidere. Non noi al posto vostro. Per ora, quella voce tace.
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